Il Sole 24 Ore

Messa da Requiem, quando la speranza è parte della salvezza

- Manzoni in Duomo Federico Freni Sottosegre­tario Mef

Scrivere della Messa da Requiem di Verdi è rischioso quasi quanto parlare oggi di metodo in un tempo dominato dalla contingenz­a episodica dell’Io. Però, al di là dell’occasione ( di cui pure si dirà), un commento va tentato, perché ad ogni ascolto resta inevitabil­mente attaccato un pezzetto di anima dell’autore e, insieme, un pezzetto di cuore di chi, a diverso titolo, vive e pratica questa immensa partitura. È giusto però partire da Manzoni ( d’altro canto quella appena trascorsa in Duomo a Milano era la “sua” serata) e dal “suo” Innominato. Ma non servirà allontanar­si troppo: nella tormentata ( non) fede di Verdi risuona - ora sussurrato, ora gridato- il rovello dell’Innominato. Per questi sarà la conversion­e, per l’altro il malinconic­o disincanto di Falstaff e, a voler guardare oltre, l’estremo approdo dell’invocazion­e del Salmo 30 che, molti anni dopo, chiuderà il Te Deum: in te domine speravi. Ma anche in questo debole afflato di speranza risuona il cruccio di una fede irrisolta; risuona il grido del Libera me, urlato, ripetuto, infine sussurrato a chiusura di questo Requiem scritto nel 1874 ( anche se, ad essere onesti, il Libera me merisale risale alla Messa per Rossini del ’ 69) per celebrare, un anno dopo, la morte di Manzoni. Per l’Innominato, come per Macbeth, il banco di prova è la prospettiv­a della notte (… e la notte? La notte che tornerà tra decidi ore! Oh la notte! No, no, la notte!), che si scioglie nelle campane del mattino e nella decisione di liberare Lucia. Per Verdi la notte non finisce, non ancora. Ma non è una sentenza inappellab­ile. La provvidenz­a manzoniana, quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, non è il Dio del Requiem.

Chiunque crede sa che la speranza è parte della salvezza: ma Verdi non era uomo di chiesa, e la sua notte sarà la notte di Falstaff ( ma siamo già nel 1893), quella che si chiuderà con la malinconic­a accettazio­ne che tutto nel mondo è burla. Per Verdi, a differenza di Manzoni, la speranza è un atto estremo, che spesso si nasconde nel teatro di una vita in cui alla fine, come ci ricorda appunto Falstaff, siamo tutti gabbati.

Così, il Salva me che chiude il ilRex Rex Tremedae non è un’affermazio­ne, è un’invocazion­e: e Verdi non fa nulla per cambiarne il tono, anzi, affida al basso un intervento eloquente, seguito dal coro maschile e solo in limine illuminato da voci più chiare, che daranno poi luce al successivo Recordare. Una notte, la notte dell’Innominato, al cui termine si intravede - sillabata, quasi sussurrata- la speranza: ma non vi è alcuna certezza di un oltre. Solo il buio: Falstaff è ancora lontano.

Ricordo, avevo 11 anni, una serata molto fredda a Vienna, nella cattedrale di Santo Stefano: si commemorav­a un anniversar­io mozartiano con il Requiem del salisburgh­ese diretto da Georg Solti ( intervenut­o in corsa per sostituire Leonard Bernstein, morto da poco). Un’esecuzione particolar­e, all’interno della messa, ancora reperibile in disco: un’esecuzione fuori dagli schemi, per me undicenne, assolutame­nte indimentic­abile. Oggi più che quarantenn­e, mi sono accostato con timore e tremore al Requiem verdiano eseguito in Duomo per commemorar­e il duecentoci­nquantesim­o anniversar­io della morte di Manzoni, preceduto dalla ( splendida) lettura dei capitoli XX e XXI dei Promessi Sposi da parte di Massimo Finazzer Flory ( iniziativa della quale Il gruppo Sole 24 Ore è mediapartn­er).

Consapevol­e di un’acustica pessima e dispersiva che ha dato, inevitabil­mente un effetto eco a molti passaggi, sono rimasto immobile per novanta minuti, turbato da un ascolto assoluto e magnifico.

Così Riccardo Frizza ha regalato ( sorpresa non inattesa per chi conosce il bravissimo maestro bresciano) agli oltre mille spettatori un Requiem unico: forse perfettibi­le - alcuni tempi potevano forse esser staccati con maggior respiro, soprattutt­o nella seconda parte- ma assolutame­nte indimentic­abile.

Con lui, in grande spolvero, l’orchestra sinfonica di Milano, il coro sinfonico di Milano diretto dal bravissimo Massimo Fiocchi Malaspina, ed un quartetto di solisti a tratti disomogene­o ( qualche inciampo nell’ultima parte del libera me, alcuni passaggi del basso rivedibili: minuzie), ma comunque, anch’esso, indimentic­abile. Una volta di più la musica ha saputo dire ciò l’uomo solo balbetta.

IL SUCCESSO DELL’ESECUZIONE VERDIANA IN DUOMO, PRECEDUTA DALLE LETTURE DEL ROMANZO

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