Quando si abusa dell’etichetta di manager
Settore pubblico
L’epoca che viviamo pare caratterizzata da una centralità riservata a ciò che è « scientifico » e « tecnico » ( con l’ossessione, tipicamente aziendale, per numeri e quantificazioni). Anche nel campo del diritto, dove i giuristi fondano la loro sapienza sullo sviluppare ragionamenti secondo una logica articolata, le quantificazioni stanno prendendo il sopravvento: chiunque abbia la ventura di assistere alle cerimonie di inaugurazione degli anni giudiziari, può testimoniare come i rappresentanti delle istituzioni parlino del loro operato in termini di procedimenti misurati in entrata e uscita, di tempi di smaltimento dei fascicoli e di quali grandi « capacità manageriali » si dimostrino attraverso il maggior numero di « fascicoli » chiusi in un tempo sempre inferiore. Anche – addirittura – nella sanità, l’operato delle strutture si misura in termini di « pazienti curati » e di « posti letto occupati » . La logica dei numeri incombe, predominando nei settori « pubblici » : solo i numeri fanno emergere la bravura e dedizione al dovere del funzionario pubblico. Certo, il buon funzionamento della pubblica amministrazione richiede capacità manageriali, ma suscita perplessità la tendenza a richiederle a chi manager non è. L’eccessiva matematizzazione non può essere usata per mettere in secondo piano capacità e sensibilità « pubbliche » che, alla base del buon funzionamento delle istituzioni, sono caratterizzate da peculiarità non rintracciabili in modelli di managerialità sviluppati nelle aziende che – va ricordato senza infingimenti – sono tra i luoghi meno democratici che esistano.
Aziende e istituzioni sono ambiti differenti, che richiedono caratteristiche professionali differenti e di non semplice conciliabilità: il ricorso, nelle istituzioni, a modalità operative e valutative tipicamente aziendali sta ( nemmeno troppo) lentamente facendo smarrire indipendenza e imparzialità che vanno recuperate. Il raggiungimento di obiettivi sempre più sfidanti, secondo una concezione aziendale, non può essere riproposto in ogni contesto: l’ossessione dei numeri immediati ( in azienda, le « trimestrali » ), non è conciliabile con la logica delle istituzioni proiettata sul lungo periodo e volta alle future generazioni, come ci ricorda l’articolo 9 della Costituzione. L’unico obiettivo delle istituzioni è la tutela del bene pubblico, nelle varie sfaccettature: ecco perché la logica privatistica dei numeri, come miglior – se non unico - criterio di valutazione dell’operatività pubblica, suscita perplessità.
Che i contesti siano diversi, lo si vede sin dalla selezione del personale. Mentre nel privato la selezione può seguire logiche personalizzate ( compresi familismo e amicismo), tutto ciò che è pubblico ( a cominciare dalle aziende) deve rispondere a principi differenti: familismo e amicismo, nel pubblico, non sono accettabili e devono essere rifiutati da chiunque abbia a cuore il buon andamento della Pa, dovendo lasciare spazio ai valori costituzionalmente orientati, quali la leale indipendenza e la imparzialità di cui agli articoli 54 e 97 della Costituzione.
Se questo è vero, si comprende come appaia macchiettistico il solo ipotizzare di mischiare, magari nella stessa persona, in modo grossolano, saperi e orientamenti differenti: si è sentito parlare di magistrati manager, medici manager, professori manager e così via, come se le capacità manageriali fossero un’etichetta applicabile a svariate figure professionali.
Quella del manager è una attività che richiede severi studi e competenze specifiche, al pari di quelle che sono richieste per il sano esercizio delle altre professioni: come un manager non può trasformarsi in un medico o in un magistrato o in un cattedratico, così questi ultimi non possono trasformarsi, senza almeno un congruo periodo di “apprendistato”, in manager. È un pensiero giurassico attribuire patenti di managerialità a chi ha studiato per fare altro e ha fatto altro per tutta la vita, maturando esperienze e professionalità specifiche in specifici settori: la sensazione che se ne trae è quella di un uso atecnico del termine « manager » , che finisce per annacquare le peculiarità di singole professionalità e l’idea stessa della managerialità. Viceversa, in un’ottica di ristrutturazione strutturale, si potrebbe pensare all’ingresso, anche in mondi a oggi del tutto autoriferiti, di professionalità esterne, formate e credibili, le cui attitudini potrebbero servire a creare ambienti nei quali, dalla coesistenza di culture differenti, potrebbe scaturire il superamento della crisi di legittimazione che, oggi, è riferita alla gran parte della Pa. Impedire maldestri e semplificati “effetti di trascinamento” di modalità e impostazioni propri di altri paradigmi culturali dovrebbe essere un obiettivo alto: non si diventa manager per investitura, né per grazia ricevuta o per numeri sciorinati nei dì di festa.