Partecipazioni societarie e recesso tra gli eredi: resta il nodo fiscale
Una recente sentenza della Corte di cassazione – la 2629 del 29 gennaio 2024 – merita di essere approfondita per le sue possibili implicazioni in caso di passaggio generazionale. La pronuncia ( commentata sul Sole 24 Ore del 4 marzo 2024) affronta il tema della legittimità della clausola statutaria di una società per azioni, costituita a tempo determinato, che preveda il diritto del socio di recedere ad nutum, quindi non solamente per giusta causa.
La Suprema corte ha affermato il principio di diritto secondo il quale è « lecita la clausola statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, la quale, ai sensi dell’articolo 2437, comma 4, del Codice civile, preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso » .
Spesso nelle famiglie imprenditoriali la partecipazione nella società che svolge l’attività d’impresa rappresenta l’asset di maggior valore del futuro attivo ereditario ma, al tempo stesso, non tutti i futuri eredi hanno lo stesso interesse o capacità per proseguire tale attività. Si vengono quindi a generare, in sede successoria, situazioni complesse di forzosa convivenza dei vari eredi nella compagine sociale, con generale insoddisfazione dei soggetti coinvolti: di quelli interessati a proseguire l’attività d’impresa, che devono condividere le decisioni e il risultato della gestione con gli eredi che si limitano a fare solamente i soci, e soprattutto di questi ultimi, che vedono la loro quota di attivo ereditario congelata in una partecipazione sociale spesso di minoranza e quindi intrinsecamente non liquidabile.
L’interpretazione recentemente offerta dalla citata sentenza della Cassazione offrirebbe lo spunto per considerare una clausola di recesso volontario, variamente articolata, quale strumento di destinazione differenziata delle partecipazioni sociali in sede successoria. Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, la creazione di due categorie di azioni: l’una, destinata a chi tra gli eredi vuole proseguire l’attività d’impresa, potrebbe prevedere diritti amministrativi rafforzati; e l’altra, destinata agli altri eredi, che a fronte di minori diritti amministrativi potrebbe invece prevedere un diritto di recesso ad nutum, magari esercitabile in modo scaglionato nel tempo per blocchi di partecipazioni.
Una simile ipotesi, tuttavia, si scontra con la vigente disciplina fiscale del recesso del socio da una società, per come interpretata dall’agenzia delle Entrate.
L’articolo 47 del Tuir, al comma 7, dispone infatti che le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di recesso dalla società costituiscono utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate. In caso di recesso tipico, quindi, il socio è tassato sull’utile che realizza, rappresentato dall’eccedenza tra quanto percepisce dalla società e il costo fiscale della sua partecipazione. Tale utile rientra tra i redditi di capitale e non tra i redditi diversi, questi ultimi essendo disciplinati dagli articoli 67 e seguenti del Tuir.
Per determinare il costo fiscale della partecipazione, da confrontare con quanto percepito in sede di recesso, secondo l’agenzia delle Entrate ( circolare 26/ E del 16 giugno 2004, risposta a interpello 441 del 2019) non è possibile applicare le disposizioni dell’articolo 68 del Tuir, secondo le quali in caso di successione il costo fiscale della partecipazione pervenuta all’erede è pari o al valore determinato in base all’articolo 16 del Dlgs 346/ 1990, oppure, nel caso di trasferimenti di partecipazioni non soggetti a imposizione in base all’articolo 3, comma 4- ter, dello stesso decreto, sulla base del loro valore normale alla data di apertura della successione.
Ne consegue che, secondo l’Agenzia, l’erede deve contrapporre al valore di recesso quello che era il costo fiscalmente riconosciuto in capo al de cuius, perdendosi così quell’effetto di rivalutazione del costo delle partecipazioni che consegue alla trasmissione delle stesse in sede successoria. Non assume rilievo, peraltro, neanche l’eventuale rivalutazione onerosa del costo della partecipazione che il de cuius avesse messo in atto in base all’articolo 5 della legge
448/ 2001 e successive modifiche e integrazioni, essendo tale maggior valore rilevante ai soli fini dei redditi diversi.