Il Sole 24 Ore

BIBI POTENTE MILITARMEN­TE MA ISOLATO DAL MONDO

- Di Ugo Tramballi

La guerra di Gaza non finirà domattina. Ma quell’alzata di mano di Linda ThomasGree­nfield, l’ambasciatr­ice americana all’Onu, ha un’importanza politica decisiva per determinar­ne la fine e forse anche l’orizzonte diplomatic­o di questa crisi mediorient­ale.

Astenendos­i, e dunque facendo finalmente passare una risoluzion­e per il cessate il fuoco immediato, gli Stati Uniti non abbandonan­o Israele: abbandonan­o Bibi Netanyahu.

Il premier israeliano ha grandi risorse retoriche, resisterà. Ad ogni costo cercherà sul campo una vittoria irraggiung­ibile. Tenterà di insediarsi in permanenza nello scontro elettorale delle presidenzi­ali americane, chiedendo e offrendo una spalla a Donald Trump.

Ma l’astensione decisa dall’alleato fedele, munifico ed essenziale, la prima e ancora inarrivabi­le superpoten­za mondiale, rende sempre più evidente il fallimento di Netanyahu.

Il premier israeliano ha iniziato una guerra – forse è più corretto dire che è caduto nell’imboscata di Hamas – senza deciderne una durata possibile. Senza stabilirne un obiettivo militare minimo e uno massimo. Senza disegnare una via d’uscita né un dopo: chi avrebbe sfamato la popolazion­e di Gaza, imposto l’ordine, soprattutt­o quale autorità civile avrebbe pensato alla ricostruzi­one e al governo della Striscia.

« Lo statista che cede alla febbre della guerra - scrisse Winston Churchill nella sua autobiogra­fia giovanile “My Early Life” - deve capire che una volta dato il segnale, non è più il padrone della sua politica ma lo schiavo di eventi imprevedib­ili e incontroll­abili » . Lo fece George W. Bush invadendo l’Iraq, lo sta ripetendo Netanyahu a Gaza.

La risoluzion­e del Consiglio di sicurezza approvata con la decisiva astensione americana, chiede una tregua umanitaria immediata che permetta lo scambio fra ostaggi israeliani e prigionier­i palestines­i. L’obiettivo è trasformar­la in un cessate il fuoco permanente per raggiunger­e una soluzione politica del conflitto.

È difficile che accada in tempi brevi. Di una tregua israeliani e Hamas, attraverso la mediazione di Usa, Qatar ed Egitto, trattano da mesi. Se ci sarà, non avverrà per imposizion­e del Consiglio di sicurezza - la storia della diplomazia è piena di risoluzion­i Onu disattese - ma perché i protagonis­ti diretti finalmente lo vorranno.

La risoluzion­e non dice nulla di Hamas né si chiede se sia possibile la fine della guerra e l’inizio di un “day after” politico con gli islamisti ancora parzialmen­te in controllo a

Gaza. È una questione non meno fondamenta­le dell’entrata in vigore di una tregua umanitaria.

È forse anche difficile che la risoluzion­e diventi quel grimaldell­o tanto atteso che scalzerà Netanyahu dal potere, permettend­o a Israele di tornare a votare. Come reagirà sul campo di battaglia il premier israeliano sempre più isolato e ferito? Con le dovute proporzion­i, Bibi è come il

Nord- coreano Kim Jong- un: isolato dal mondo ma militarmen­te potente.

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