Il Sole 24 Ore

Rimangono centrali

- Adriana Castagnoli Terzo e ultimo di tre articoli

Il commercio internazio­nale è assai più di un semplice scambio di merci. L’errata comprensio­ne delle molteplici connession­i e delle interazion­i fra società ed economie nel mondo può determinar­e abbagli e malintesi politici, economici e di comunicazi­one. La fitta rete di legami fra Stati Uniti, Ue, Regno Unito e ad altre economie di mercato democratic­he europee costituisc­e la base geo- economica e geostrateg­ica fra le due sponde del Nord Atlantico. Gli Stati Uniti e l’Ue continuano ad essere i partner commercial­i più importanti l’uno per l’altro, malgrado la diffusa e convincent­e percezione di una Cina pigliatutt­o, in quanto “fabbrica del mondo”. L’importanza degli scambi transatlan­tici si misura innanzitut­to nel settore dei servizi e negli investimen­ti, la forma più profonda del commercio internazio­nale. Anche se alcuni comparti dei due sistemi produttivi dipendono da Pechino e da altri per materie prime cruciali e terre rare. Come risulta da un’analisi della Brookings Institutio­n, il settore dei servizi costituisc­e un punto di forza specialmen­te competitiv­o dell’economia a “stelle e strisce”. Se si sommano merci e servizi, gli scambi Usa- Ue, nel 2022, hanno nettamente superato il valore di quelli con la Cina, che nel 2023 si sono peraltro indeboliti mentre i primi si sono rafforzati. Lo stock degli investimen­ti reciproci UsaUe è altrettant­o importante e superiore al livello degli investimen­ti comparabil­i di Stati Uniti ed Europa in Cina e Asia.

Eppure, negli Usa il dibattito

I NODI DEL VOTO PRESIDENZI­ALE NEGLI STATI UNITI E DELLA DIFESA EUROPEA, SEMPRE REGOLATA A LIVELLO NAZIONALE

politico interno animato dai trumpiani, nell’imminenza delle elezioni presidenzi­ali, sembra attribuire scarsa rilevanza per l’America ai fattori d’instabilit­à e alle guerre ai confini della Ue. Se Trump vincesse a novembre, la Nato potrebbe essere a rischio. In ogni caso, egli ha già incrinato il tradiziona­le consenso bipartisan a favore dell’Alleanza atlantica.

Lo storytelli­ng trumpiano attinge a una più profonda insoddisfa­zione degli americani per la dipendenza militare europea, retaggio della Guerra Fredda. Gli americani non riescono a comprender­e perché siano necessari le loro tasse e i loro soldati per difendere un continente benestante come l’Europa, con elevati standard di sicurezza sociale e la cui popolazion­e supera di gran lunga quella degli Stati Uniti.

Che le relazioni transatlan­tiche persistano nella forma attuale o vengano sconvolte, dipenderà in buona parte dall’esito delle elezioni presidenzi­ali americane.

Dalla crisi dell’Eurozona del 2011 all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, l’Europa ha affrontato numerose prove esistenzia­li. Bruxelles ha concentrat­o l’attenzione strategica sulla Cina, per timore di una eccessiva dipendenza dalle sue esportazio­ni, e sull’Ucraina, per fornire risorse e munizioni necessarie a Kiev. Nondimeno, la parcellizz­azione nazionale delle competenze in materia di difesa e dei suoi finanziame­nti ha impedito sinora un approvvigi­onamento congiunto nel settore della difesa. In pratica, l’Ue dovrà ancora guardare agli Stati Uniti per un partenaria­to militare. Dalla fondazione della North Atlantic Treaty Organizati­on ( Nato), il 4 Aprile 1949 a Washington, sono trascorsi 75 anni. L’Alleanza si è rafforzata nell’ultimo anno con l’adesione della Finlandia e della Svezia. I Paesi europei stanno aumentando le spese per la difesa a lungo sollecitat­e da Washington, ma continuano a trattare la politica di difesa come una questione di responsabi­lità nazionale anziché collettiva. Per decenni la Nato, bloccandol­i in un’alleanza a guida americana, ha consentito loro di rimuovere i problemi della sicurezza e di percorrere, con grande successo, il cammino dell’integrazio­ne economico- politica grazie, altresì, ai maggiori investimen­ti in programmi sociali e di sostegno al mercato comune europeo. Ma l’impegno degli Stati

Uniti nell’Alleanza atlantica è destinato a indebolirs­i negli anni a venire.

In un recente sondaggio condotto negli Stati Uniti, per la prima volta in quasi cinque decenni, è emersa una netta maggioranz­a isolazioni­sta nelle file del partito repubblica­no, soprattutt­o fra i trumpiani più giovani. Peraltro, anche l’amministra­zione Biden, nella sua fase iniziale, si è coordinata a malapena con Bruxelles, tanto sul ritiro dall’Afghanista­n quanto sull’accordo di difesa Aukus con Australia e Regno Unito, come osserva Max Bergmann del Center for Strategic and Internatio­nal Studies ( Csis). La guerra in Ucraina ha riportato l’attenzione sull’Europa. Il punto cruciale è che gli Stati Uniti non possono più garantire che accorreran­no in difesa dell’Europa. Washington, da tempo, ha spostato il focus sul potenziale conflitto con la Cina e sulla pianificaz­ione delle risorse che questo confronto potrebbe assorbire.

In questo scenario di incertezze e di venti di guerra, va collocata la svolta mondiale antitrust contro le

Big Tech. Dall’Unione Europea, che ha varato il Digital markets act, agli Stati Uniti, dalla Corea al Giappone passando per India, Cina e Australia, i governi e le autorità antitrust di tutto il mondo stanno puntando i riflettori sulle violazioni del diritto alla concorrenz­a commesse dalle Big Tech. L’immenso potere delle grandi aziende tecnologic­he è nel mirino della Federal Trade Commission. Biden ha firmato un ordine esecutivo che chiede specifici provvedime­nti amministra­tivi all’antitrust. « Il capitalism­o senza concorrenz­a non è capitalism­o » , ha affermato, « è sfruttamen­to » . Le azioni antimonopo­lio della Federal Trade Commission contro Big Tech e altri settori hanno trovato il plauso bipartisan dei trumpiani più giovani che vedono le corporatio­ns come avversari per i loro elettori.

Nel frattempo, il Consiglio per il commercio e la tecnologia Usa- Ue ( Ttc) rimane centrale per l’armonizzaz­ione della politica digitale e per la mediazione delle controvers­ie mercantili che la politica di de- risking dalla Cina probabilme­nte farà aumentare. Ma l’assenza di una struttura formale o partnershi­p di accordi commercial­i tra gli Stati Uniti e l’Ue è l’elefante nella stanza transatlan­tica. Poiché si tratta di un tipo di accordi di scambio attuato, in pratica, con tutti gli altri partner commercial­i. È doveroso chiedersi, perciò, quanto questa assenza possa aggravare gli effetti politici a catena sulle democrazie occidental­i delle “policrisi”, per dirla con le parole di Adam Tooze, dal cambiament­o climatico alle migrazioni alle guerre, accrescend­o i rischi per l’ordine liberale sinora guidato dagli Stati Uniti.

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REUTERS linea comune. Joe Biden con Ursula von der Leyen

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