Turchia, sconfitta storica di Erdogan alle amministrative
L’Akp, partito del presidente, non è più il primo, superato dal principale rivale, il Chp Espugnate roccaforti del governo. Ha pesato la grave crisi economica
« Indipendentemente dal risultato, il vincitore di questa elezione è la democrazia. Non abbiamo sfortunatamente ottenuto il risultato che volevamo ma ricostruiremo la fiducia nei luoghi in cui il nostro Paese ha scelto altri » . È raro, anzi molto raro, ascoltare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan rendere omaggio alla successo dell’opposizione. Ricorrendo peraltro a toni pacati, senza rivendicazioni, e senza accuse. Ma davanti ad una sconfitta così netta, l’uomo al potere in Turchia dal 2003, ha scelto la strada del pragmatismo. D’altronde per il presidente ed il suo partito di maggioranza, l’Akp, le elezioni amministrative tenutesi domenica sono state una debacle. Senza mezzi termini. Il maggiore partito dell’Opposizione, il Chp, ha trionfato nella sua roccaforte di Smirne, si è riconfermato a Istanbul e nella capitale Ankara, ha perfino espugnato Bursa, Balikesir ed altri centri considerati roccaforte dell’Akp. Risultato: dopo 22 anni di primato ininterrotto l’Akp non è più il primo partito a livello nazionale. Stando ai risultati, non ancora definitivi, si è fermato al 36% mentre il Chp ha superato il 37 per cento.
Lo scorso maggio, subito dopo il trionfo nell’elezione presidenziale più in bilico da vent’anni, Erdogan era con la testa già alle amministrative del 2024. A preoccuparlo, in particolare, era il destino della sua città natale, Istanbul, caduta nel 2019 in mano ad una delle figure più carismatiche dell’opposizione, Ekrem İmamoğlu, divenuto il candidato più credibile alle presidenziali del 2028. Una metropoli a lui tanto cara. Assicurarsi Istanbul, dove aveva iniziato la sua ascesa la potere divenendo sindaco nel 1994, e la capitale Ankara, anch’essa caduta in mano all’opposizione nel 2019, significava mettere a tacere l’opposizione, forse una volta per tutte, spianare la strada per la sua successione, e, particolare non da poco, controllare una quota ingente dei preziosi finanziamenti ai partiti.
« Chi governa Istanbul, governa la Turchia » , amava ripetere Erdogan, almeno prima che cadesse in mano all’opposizione. Per certi aspetti era vero. Qui vivono oltre 16 milioni di persone, quasi il 20% della popolazione turca. Il Prodotto interno lordo generato da questa metropoli equivale a quasi il 25% circa di quello nazionale. Non solo. Chi controlla Istanbul può amministrare un budget astronomico: 516 miliardi di lire turche ( quasi 15 miliardi di euro). Per avere un’idea il budget della capitale ammonta a 92 miliardi di lire turche.
Il voto di domenica ha dunque sparigliato le carte. Ben inteso, Erdogan è ancora il “padre padrone” della Turchia. Primo ministro dal 2003 al 2014, e poi presidente ( in seguito con poteri molto ampi, grazie ad un controverso referendum costituzionale passato per pochi voti nel del 2017).
Stavolta una parziale sconfitta era nell’aria. Ma non di questa entità. Il divario tra İmamoğlu ( 50,6%) e Murat Kurum ( 40,5%), il candidato di Erdogan, è stato di 10 punti percentuali. Ad Ankara, dove è stato riconfermato Mansur Yavas, il Chp è andato oltre il 60% dei consensi.
Il voto amministrativo ha messo in luce le debolezze di un sistema fondato e incentrato su una sola personalità, forte e carismatica, Recep Tayyip Erdogan. Ma se l’uomo forte fa presa nelle presidenziali, per le amministrazioni locali il voto è meno “di pancia”. Certo, la crisi economica, che si trascina ormai da sei anni, ha eroso il potere di acquisto, ed anche il consenso, di un elettorato composto soprattutto da famiglie numerose.
Le ricette per risanare l’economia dell’uomo che fino al 2023 chiamava i tassi di interesse « la madre ed il padre di tutti i mali » , e si era ostinato a tenerli molto bassi nonostante un’inflazione superiore all’ 80 per cento, si sono rivelati fallimentari. Oggi, il caro- vita viaggia ancora a valori inaccettabili, al 67%, anche dopo le presidenziali del 2023 la Lira turca ha proseguito la sua caduta libera. In soli cinque anni si è svalutata di quasi sei volte nei confronti del dollaro americano. Quando Erdogan si è arreso, autorizzando la Banca centrale a percorrere la via più ortodossa - una serie di rialzi dei tassi - i risultati sono stati deludenti. Per compiacere i mercati internazionali, nel tentativo di attrarre flussi di valuta pregiata, dalla rielezione di Erdogan i tassi sono stati portati dall’ 8,5% all’attuale 50 per cento. Con un deciso rialzo deliberato il 21 marzo, a 10 giorni dal voto. Eppure, l’inflazione non è ancora stata domata.
Dopo i risultati elettorali, e soprattutto dopo l’annuncio di Erdogan di dare più tempo al suo team di economisti per produrre dei risultati, la lira si è ripresa dal minimo di 32,56 per dollaro, per poi assestarsi intorno a 32. Ma la strada per uscire dalla crisi è ancora in salita.