Le mosse possibili per favorire l’integrazione
Scuola
L’ACCOGLIERE LE DIFFERENZE, FORMARE DOCENTI AI METODI DI INSEGNAMENTO PIù AVANZATI, OFFRIRE CORSI DI RECUPERO
intervento, sopra le righe, del Ministero contro la decisione della scuola di Pioltello di chiudere per l’ultimo giorno di Ramadan e le dichiarazioni del ministro Valditara sulla percentuale massima di studenti stranieri in classe hanno acceso la polemica su come integrare nella nostra scuola ragazzi e ragazze di diversa nazionalità, etnia e talvolta religione. Al di là delle forzature preelettorali, il tema è attuale, complesso e di difficile soluzione.
Che cosa prevedono le regole della scuola? Il principio generale è l’impronunciabile “equi- eterogeneità”, cioè l’obbligo di formare classi che includano studenti differenti per abilità, origine sociale ed etnica, così da evitare ambiti di studio caratterizzati da alunni di un solo tipo ( ad esempio, solo quelli molto bravi o quelli nati in Italia). Sappiamo infatti che un punto di forza dell’istruzione pubblica è proprio la possibilità di far dialogare studentesse e studenti provenienti da ambienti diversi, migliorando i risultati scolastici di tutti. Le classi formate in base a criteri di segregazione contrastano con il pluralismo e la qualità dell’istruzione. Per fortuna, le analisi ci mostrano che in oltre l’ 80% delle scuole il principio dell’equieterogeneità è seguito fedelmente.
Per gli studenti di origine immigrata, oltre al principio generale, esiste una legge della ministra Gelmini, che dal 2010 limita al 30% la presenza di studenti stranieri in ogni classe ( Valditara vuole scendere al 20%). L’obiettivo, condivisibile, è evitare la formazione di classi segregate. La legge nasceva, però, in un contesto differente, con molti più studenti nati all’estero ( prima generazione). Oggi il quadro è cambiato: dei circa 900mila studenti non italiani ( 11% del totale), quasi il 70% è nato in Italia ( seconda generazione). Come considerare le seconde generazioni ai fini della soglia del 30%? Allora il Ministero prevedeva deroghe; la stessa Gelmini disse pubblicamente che il limite non valeva per loro. Del resto, solo una normativa assurda – che per opportunismo nessuna forza politica ha mai voluto cambiare – priva del diritto di cittadinanza giovani nati e formati nel nostro Paese. Se si escludono le seconde generazioni, il limite del 30% diventa irrilevante nella maggior parte del Paese. Ma il problema rimane. Se le seconde generazioni non hanno le difficoltà linguistiche delle prime, spesso provengono da ambienti culturali e sociali svantaggiati, con risultati scolastici inferiori a quelli degli italiani. Inoltre, vi sono comunque scuole in aree in cui la concentrazione di studenti stranieri è elevatissima – si pensi alle periferie delle grandi città – e che quindi superano il tetto: talvolta, anche perché le famiglie italiane non iscrivono i figli in quelle scuole ( il cosiddetto “white flight”).
Altri Paesi hanno affrontato la questione ben prima di noi. Ad esempio, gli Stati Uniti, dove all’inizio degli anni 70 otto studenti bianchi su dieci frequentavano scuole quasi totalmente popolate da alunni simili a loro, mentre sei di quelli di colore studiavano in istituti con almeno il 70% di studenti neri. Per evitare la segregazione razziale, fino alla fine degli anni 80 i tribunali hanno ordinato che i bambini provenienti dalle minoranze fossero accompagnati ogni giorno in scuole frequentate da studenti bianchi in altri quartieri ( school busing). Molto dirigista, questa politica ha avuto poca efficacia: il grado di integrazione è cresciuto, ma gli studenti trasferiti non hanno significativamente migliorato i loro esiti scolastici.
Che cosa fare dunque per aiutare l’integrazione scolastica in Italia, evitando interventi così draconiani? Come ha detto un’insegnante intervistata in questi giorni, occorre che la scuola faccia bene il proprio lavoro. Nel caso specifico, accogliere le differenze culturali e religiose, come le festività; estendere la scuola al pomeriggio negli istituti con molti studenti svantaggiati così da offrire corsi di recupero e potenziamento; attivare forme di tutoraggio individuale per chi è in maggiore difficoltà; formare adeguatamente i docenti ai metodi di insegnamento più avanzati e aumentare quelli di italiano come seconda lingua; infine, incentivare anche economicamente gli insegnanti migliori e più motivati a trasferirsi nelle scuole di frontiera.