Il design come forma del mondo ( e della politica)
Per comprendere il volto della Milano di questi anni, la sua dimensione di città stratificata, la sua propensione a parlare con linguaggi molteplici, è inevitabile non pensare al design a pochi giorni all’apertura del Salone del Mobile, alla sua funzione caratterizzante, al suo valore identitario. Infatti, anche se abitiamo un presente dove i concetti di virtuale e di smaterializzato hanno preso il sopravvento nei confronti di qualsiasi elemento di concretezza, nel lavoro come nei rapporti interpersonali, continuiamo a conservare il culto per gli oggetti, per i mobili, convinti come siamo che il loro linguaggio, fatto di materia, assicuri un vincolo più duraturo con il tempo e diventi un antidoto al rischio di evanescenza.
Posto in questi termini, ci sarebbe ben poco da aggiungere alla regola che domina il tempo presente: più ci allontaniamo dalla realtà, più ne sentiamo la mancanza e la cerchiamo negli elementi simbolici, gli oggetti o i mobili appunto, possibilmente ben fatti, con il rischio però di considerarli una maniera piuttosto elementare con cui riempire la dimensione quotidiana. Non è così perché, se è vero che essi preesistono alle parole con cui sono stati battezzati, è altrettanto vero che il fondamento del loro esistere, la necessità che ne fa un qualcosa di inestirpabile, sta proprio nell’uso. « Un sasso piano diventa una sedia solo nel momento in cui qualcuno decide di sedersi e, allo stesso tempo, quel sasso “crea” la persona seduta » annota Loredana La Fortuna in uno dei passaggi del suo libro, È una questione di design ( Meltemi, pagg. 192, € 16), che affronta « il senso degli oggetti nella cultura » – questo il sottotitolo – secondo un approccio squisitamente umanistico. Si può essere d’accordo o no con questo ragionamento, ma niente può sconfessare, per esempio, il caso che riguarda l’invenzione del post- it. L’espressione identifica il piccolo adesivo realizzato nel 1980 quasi per un caso fortuito dagli ingegneri Art Fry e Spencer Silver. Si tratta di un pezzettino di carta buono per prendere appunti e per essere incollato allo sportello di un frigorifero o di un pensile. Ma è qui che avviene il passaggio: da oggetto ideato per una specifica funzione di servizio, il post- it si è subito trasformato in un genere di scrittura.
La dimensione del quadratino di carta colorato è diventato, infatti, sinonimo di messaggio breve, tanto che lo stesso nome – post- it – indica sia il blocchetto colorato che il contenuto. L’autrice del volume ci dimostra quanto sia contagiosa l’operazione che conduce a far imparentare significante e significato, specie in un’epoca che ha investito quasi tutte le sue risorse nel culto delle immagini e ciò ha conferito un valore assai più ampio alla presenza degli oggetti nella vita comune: essi non sono più e soltanto la risposta a criteri di utilità, ma la sintesi di un garbo formale, di un’estetica figlia di una felicissima fusione tra eleganza e pragmatismo, i due cardini che restituiscono il concetto di classico a uno schiaccianoci, a una sedia, a una lampada. È soltanto questo e nessun altro lo scopo del design: « dare forma ai propositi, ai desideri, alle aspirazioni » . È sempre la stessa autrice ad affermarlo e questa dichiarazione non è un atto di cieca fiducia, piuttosto un’uscita di sicurezza: se proprio non possiamo fare a meno della cultura materiale, dove ogni cosa è sottoposta a stima economica, che almeno essa sia il riassunto di un’idea di mondo in cui nulla è lasciato al manifestarsi di linee o curve, all’alternarsi tutt’altro che casuale fra spazi vuoti e spazi pieni. Per quanto rientri nella categoria di merce da destinare ai mercati, un pezzo di arredamento o un elettrodomestico reca in sé una proposta progettuale che non tarda a farsi interprete di un’idea di società, spostando la discussione intorno al ruolo degli oggetti su un piano completamente diverso da quello estetico, ma non per questo meno fondato. Il capitolo che approfondisce il rapporto tra design e politica è la parte più novecentesca del libro, ma è anche quella che restituisce all’attenzione del lettore la radice originaria del problema. « Possono gli oggetti fare politica? » si domanda La Fortuna. E fa bene a cercare risposte nelle parole di Tomás Maldonado, che individuava nel Bauhaus il modello insuperabile che metteva insieme funzione, ragione ed etica. La cucina modulare, che è stata disegnata nel 1926, detta anche la “cucina di Francoforte”, è assai più di una semplice disposizione di pensili, cassettiere ed elettrodomestici. È il paradigma di un benessere democratico. Peccato poi che negli anni a noi più vicini questo principio si sia perduto e quello che oggi viene chiamato metabrand ( una sovrapposizione di immagini e di immaginari che ha portato alla deformazione del concetto di brand) ha trasformato il design in un bene per pochi, un privilegio aristocratico.