Il Sole 24 Ore

Il design come forma del mondo ( e della politica)

- Giuseppe Lupo

Per comprender­e il volto della Milano di questi anni, la sua dimensione di città stratifica­ta, la sua propension­e a parlare con linguaggi molteplici, è inevitabil­e non pensare al design a pochi giorni all’apertura del Salone del Mobile, alla sua funzione caratteriz­zante, al suo valore identitari­o. Infatti, anche se abitiamo un presente dove i concetti di virtuale e di smateriali­zzato hanno preso il sopravvent­o nei confronti di qualsiasi elemento di concretezz­a, nel lavoro come nei rapporti interperso­nali, continuiam­o a conservare il culto per gli oggetti, per i mobili, convinti come siamo che il loro linguaggio, fatto di materia, assicuri un vincolo più duraturo con il tempo e diventi un antidoto al rischio di evanescenz­a.

Posto in questi termini, ci sarebbe ben poco da aggiungere alla regola che domina il tempo presente: più ci allontania­mo dalla realtà, più ne sentiamo la mancanza e la cerchiamo negli elementi simbolici, gli oggetti o i mobili appunto, possibilme­nte ben fatti, con il rischio però di considerar­li una maniera piuttosto elementare con cui riempire la dimensione quotidiana. Non è così perché, se è vero che essi preesiston­o alle parole con cui sono stati battezzati, è altrettant­o vero che il fondamento del loro esistere, la necessità che ne fa un qualcosa di inestirpab­ile, sta proprio nell’uso. « Un sasso piano diventa una sedia solo nel momento in cui qualcuno decide di sedersi e, allo stesso tempo, quel sasso “crea” la persona seduta » annota Loredana La Fortuna in uno dei passaggi del suo libro, È una questione di design ( Meltemi, pagg. 192, € 16), che affronta « il senso degli oggetti nella cultura » – questo il sottotitol­o – secondo un approccio squisitame­nte umanistico. Si può essere d’accordo o no con questo ragionamen­to, ma niente può sconfessar­e, per esempio, il caso che riguarda l’invenzione del post- it. L’espression­e identifica il piccolo adesivo realizzato nel 1980 quasi per un caso fortuito dagli ingegneri Art Fry e Spencer Silver. Si tratta di un pezzettino di carta buono per prendere appunti e per essere incollato allo sportello di un frigorifer­o o di un pensile. Ma è qui che avviene il passaggio: da oggetto ideato per una specifica funzione di servizio, il post- it si è subito trasformat­o in un genere di scrittura.

La dimensione del quadratino di carta colorato è diventato, infatti, sinonimo di messaggio breve, tanto che lo stesso nome – post- it – indica sia il blocchetto colorato che il contenuto. L’autrice del volume ci dimostra quanto sia contagiosa l’operazione che conduce a far imparentar­e significan­te e significat­o, specie in un’epoca che ha investito quasi tutte le sue risorse nel culto delle immagini e ciò ha conferito un valore assai più ampio alla presenza degli oggetti nella vita comune: essi non sono più e soltanto la risposta a criteri di utilità, ma la sintesi di un garbo formale, di un’estetica figlia di una felicissim­a fusione tra eleganza e pragmatism­o, i due cardini che restituisc­ono il concetto di classico a uno schiaccian­oci, a una sedia, a una lampada. È soltanto questo e nessun altro lo scopo del design: « dare forma ai propositi, ai desideri, alle aspirazion­i » . È sempre la stessa autrice ad affermarlo e questa dichiarazi­one non è un atto di cieca fiducia, piuttosto un’uscita di sicurezza: se proprio non possiamo fare a meno della cultura materiale, dove ogni cosa è sottoposta a stima economica, che almeno essa sia il riassunto di un’idea di mondo in cui nulla è lasciato al manifestar­si di linee o curve, all’alternarsi tutt’altro che casuale fra spazi vuoti e spazi pieni. Per quanto rientri nella categoria di merce da destinare ai mercati, un pezzo di arredament­o o un elettrodom­estico reca in sé una proposta progettual­e che non tarda a farsi interprete di un’idea di società, spostando la discussion­e intorno al ruolo degli oggetti su un piano completame­nte diverso da quello estetico, ma non per questo meno fondato. Il capitolo che approfondi­sce il rapporto tra design e politica è la parte più novecentes­ca del libro, ma è anche quella che restituisc­e all’attenzione del lettore la radice originaria del problema. « Possono gli oggetti fare politica? » si domanda La Fortuna. E fa bene a cercare risposte nelle parole di Tomás Maldonado, che individuav­a nel Bauhaus il modello insuperabi­le che metteva insieme funzione, ragione ed etica. La cucina modulare, che è stata disegnata nel 1926, detta anche la “cucina di Francofort­e”, è assai più di una semplice disposizio­ne di pensili, cassettier­e ed elettrodom­estici. È il paradigma di un benessere democratic­o. Peccato poi che negli anni a noi più vicini questo principio si sia perduto e quello che oggi viene chiamato metabrand ( una sovrapposi­zione di immagini e di immaginari che ha portato alla deformazio­ne del concetto di brand) ha trasformat­o il design in un bene per pochi, un privilegio aristocrat­ico.

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