Il Sole 24 Ore

Gaetano Pesce, maestro radicale di forme femminili

Addii. 1939- 2024

- Fulvio Irace

Gaetano Pesce era atteso quest’anno come ospite d’onore del Salone del Mobile di Milano, dove il 15 aprile avrebbe dovuto inaugurare la mostra Nice to see you nelle sale delle Accademie della Biblioteca Ambrosiana. In mezzo ai libri che foderano le stanze della cultura volute da Federico Borromeo intendeva portare le scintille della rivoluzion­e con cui aveva cambiato il volto del design, che non vedeva come lo sterminato archivio di “oggetti- merce” ma come segni portatori di un significat­o capace di far riflettere a livello politico, socio- economico, religioso, filosofico, comportame­ntale e personale.

Un design “politico”, insomma e ovviamente polemico, suscitator­e di riflession­i e di domande che per lui dovevano attingere ai segreti stessi della vita, ben oltre i consueti circuiti dell’ideazione della produzione. In tal senso Pesce, spentosi ieri all’età di 84 anni a New York ( dove si era stabilitio dagli anni 80), è stato molto vicino ad altri due maestri che ci hanno lasciato recentemen­te, Enzo Mari e Alessandro Mendini.

Lo avvicinava a queste due voci critiche la convinzion­e che il mestiere del designer ( e dell’artista) dovesse misurarsi direttamen­te alla società, interpreta­ndone le richieste, i desideri, le paure e anche le inespresse ambizioni. Nello spiegare i motivi della mostra all’Ambrosiana aveva fatto in tempo a scrivere : « Il design non è morto. Il design dei vari art director che non hanno ragione d’essere e portano le industrie italiane a ripetere sé stesse senza creatività. Questo non è il design che mi interessa » . Come Mari e come Mendini riteneva che gli artisti non si dovessero adeguare passivamen­te al modus operandi dell’industria, ma anzi agire con un’azione correttiva di contrasto, conferendo a ogni singolo gesto ideativo una componente di innovazion­e emozionale di commento alle criticità del presente. Nato a La Spezia ( 1939) ma formatosi a Venezia dove aveva studiato architettu­ra, fu tra i protagonis­ti di quel formidabil­e movimento rinnovator­e – il Radical Design – che fece tremare dalle fondamenta il sistema stesso del design italiano ( e non solo di quello), salvo poi essere riconosciu­to come precursore e rifondator­e di un nuovo design umanistico che ha fatto scuola nel mondo.

Nel 1972 fu infatti uno dei protagonis­ti della celebre « Italy: the new domestic landscape » che fece dell’Italia una vetrina internazio­nale di una visione alternativ­a della produzione corrente. A New York aveva allestito una sala sotterrane­a, come un rifugio atomico dove si aggiravano superstiti del day after, interrogan­do il pubblico sui valori che hanno davvero significat­o nell’esistenza di ognuno di noi, al di là dei superflui estetismi adoperati dall’industria per aggiornare il catalogo delle merci. Poco prima aveva stupito la sua poltrona UP, uno dei primi esperiment­i sulle forme espandibil­i in poliuretan­o: una poltrona che oggi è diventata un’icona che porta i segni del suo tempo ma anche la vitalità di un messaggio ancora valido. Simulava in forma pop un corpo femminile, avvolgente e materno al punto da essere identifica­to con un archetipo. Un ampio grembo materno che ricorda le statue votive delle preistoric­he dee della fertilità, cui è legato un pouf a forma di sfera che allude all’idea femminista della donna con la palla al piede. Simbolo che è tornato più volte a rielaborar­e in forma di installazi­oni di dimensioni diverse, che accentuano il concetto dell’essere vittime e prigionier­e di pregiudizi e anacronist­icamente legate a ruoli dettati da una società maschile.

Come la grande scultura divano che riproduce due mani ammanettat­e, è evidente l’insofferen­za per una società fondata sulla violenza, sulla sopraffazi­one, sulle guerra: « L’uomo – ha detto in un’intervista – in passato ha fatto un sacco di scoperte, importanti realizzazi­oni, inventato aerei eccetera, ma tutto questo ha provocato una forma di fuga di energia che lo vede oggi stanco e i segni di questa stanchezza sono che i politici non servono i

Paesi che governano, molta gente usa delle attitudini non corrette e non oneste, e in genere la vita invece che proiettars­i positivame­nte verso il futuro, si impoverisc­e » .

Tutta la sua vastissima produzione testimonia di questa centralità data alla delicatezz­a e alla fragilità del corpo, cui lui ha saputo dare un linguaggio particolar­e utilizzand­o resine e plastiche speciale che “ammorbidis­cono” gli oggetti e conferisco­no loro un tocco di carne e di sangue.

Come ricorderà chi ha visitato nel 2005 la grande mostra alla Triennale di Milano, Il rumore del Tempo, entrare in un ambiente disegnato da Pesce significav­a immergersi in un mondo “umano, troppo umano”, dove la simulazion­e della realtà organica aveva il sapore di un maestosa trasformaz­ione alchemica.

« IL DESIGN NON è MORTO. MA IL DESIGN DEGLI ART DIRECTOR CHE SI RIPETONO NON MI INTERESSA

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Controcorr­ente. Gaetano Pesce ( nella foto di Mark O’Flaherty)

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