La Cina aggira la linea Maginot dei dazi americani passando per il Messico
Le guerre commerciali, analogamente a quelle militari, si combattono su più fronti e con armi spesso non convenzionali. Quella tra Usa e Cina, iniziata in modo dirompente durante la Presidenza Trump, era partita con fragorose bordate di dazi e misure punitive. Biden l’ha inasprita con l’embargo sui microchip di ultima generazione e l’Inflation reduction act.
Ma la strada di ogni strategia è lastricata di inaspettate contromisure e di attacchi a sorpresa nei punti lasciati sguarniti. Il ventre molle della fortezza America è il Messico, dove le aziende cinesi stanno sfruttando l’accordo di libero scambio tra Usa, Messico e Canada ( Usmca) entrato in vigore nel 2020. Nel 2023, il Messico è assurto a primo partner commerciale degli Stati Uniti superando la Cina. Un’analisi superficiale attribuirebbe questo primato al decoupling, cioè la separazione dei rapporti economici tra le due maggiori economie mondiali. Ma se si scava più a fondo, emerge che la più stretta integrazione tra le due sponde del Rio Bravo è avvenuta in concomitanza all’intensificarsi dei flussi commerciali tra Messico e Cina: le importazioni dalla Cina sono schizzate da 83 miliardi di dollari nel 2019 a quasi 120 miliardi nel 2022. A gennaio 2024 il traffico container tra Cina e Messico ha registrato un’impennata del 60% rispetto ad un anno prima. Inoltre, gli investimenti diretti cinesi in Messico sono triplicati tra il 2019 e il 2021. Insomma, la Cina utilizza il Messico come Paese di transito delle esportazioni, in primis acciaio e alluminio. Per di più la rappresentante Usa per il commercio internazionale,
IL PAESE CENTRO AMERICANO è DIVENTATO LA TESTA DI PONTE PER EVITARE I FRENI ALLE IMPORTAZIONI DA PECHINO
Katherine Tai, nutre il sospetto che i dati sottostimino il fenomeno. Deliberatamente o meno, i messicani non registrerebbero accuratamente le importazioni dalla Cina successivamente reindirizzate verso Nord. Per dimostrare la sua buona fede il governo messicano il 16 agosto 2023 ha aumentato le tariffe tra il 5% e il 25% su 392 prodotti importati da Paesi con cui non ha un accordo di libero scambio, tra cui la Cina. Le tariffe coprono circa il 90% delle esportazioni cinesi in Messico e rimarranno in vigore fino al luglio 2025. Inoltre lo scorso dicembre i dazi su alcuni prodotti in acciaio cinesi sono stati portati all’ 80%.
Ma a Washington temono che tra il decretare e il pagare ci sia di mezzo il malaffare. Jeff Ferry parlando all’ « Economist » a nome della Coalition for prosperous America, un’associazione di aziende industriali, ha sottolineato che « l’Usmca è diventato di fatto un accordo tra Usa, Cina e Messico, in base al quale la Cina spedisce tanti prodotti attraverso il Messico » .
Inoltre, la testa di ponte dell’Impero di Mezzo potrebbe allargarsi a dismisura se la delocalizzazione dalla Cina verso il giardino di casa della superpotenza rivale si intensificasse e si estendesse a settori strategici. L’analogia militare più calzante sarebbe l’aggiramento della linea Maginot. Il fianco più esposto è quello dell’industria automobilistica. I dati evidenziano che i ricambi e gli autoveicoli cinesi già penetrano nel mercato statunitense attraverso il Messico, ma il vero impulso verrebbe impresso dai 5 stabilimenti per la costruzione di Ev già programmati da costruttori cinesi.
Byd, il maggior produttore al mondo di Ev punta a costruire 150.000 vetture in Messico, destinate ( a suo dire) al mercato interno, non all’esportazione. Tuttavia gli ultimi modelli di Byd hanno prezzi stracciati tali da solleticare la domanda negli Usa. Secondo Autoweek, la nuova Yuan Up di Byd potrebbe costare su strada tra i 14.000 e i 20.000 dollari e potrebbe essere esportata dal Messico negli Usa con un dazio del 2,5% invece che del 25% imposto sull’import cinese.
A gennaio si è addirittura unito al coro Elon Musk a nome di Tesla: « Le case automobilistiche cinesi sono le più competitive e avranno un significativo successo fuori dalla Cina a seconda dei dazi che verranno imposti » . Questo vantaggio competitivo peraltro si deve a un ampio ventaglio di massicci sussidi statali, dalle agevolazioni fiscali ai prestiti agevolati passando per protezionismo e lavori forzati nello Xinjiang.
L’aggiramento della Maginot daziaria peraltro sta per essere replicato anche nell’Ue: Byd sta acquistando terreni in Ungheria per installarvi la sua prima fabbrica in Europa. Quanto all’Italia, il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha riferito in Parlamento che il governo ha intavolato delle trattative con aziende automotive cinesi per installare fabbriche in Italia. I sovranisti aspirano a fare dell’Italia il Messico d’Europa.
I GIORNALISTI E GLI ESPERTI CHE CRITICANO IL POTERE SONO SEMPRE PIù SPESSO OGGETTO D’INTIMIDAZIONI
L’ultimo episodio risale a pochi giorni fa. Un ex corrispondente da New Delhi di un quotidiano britannico si è domandato sul social X se quelle che inizieranno la prossima settimana non rischino di essere le « ultime elezioni democratiche indiane » . Com’era facile immaginare, il grido d’allarme ha risvegliato centinaia di troll con vari gradi di dimestichezza con la grammatica e la storia professionale dell’autore del tweet. Fin qui nulla di strano.
La cosa stupefacente è che in mezzo alle masse vocianti c’era anche il presidente di quello che viene considerato il più prestigioso think tank indiano. Il quale – disinteressandosi del pallone, come si direbbe in gergo calcistico – ha mirato dritto all’autore del tweet, accusandolo di essere « razzista » ( salvo poi qualificarlo, subito dopo, in base al colore della pelle).
Dietro un intervento così scomposto, potrebbe esserci qualcosa di più della smania di duellare sui social. Gli episodi che suggeriscono che una parte delle élite politiche e intellettuali indiane si senta accerchiata sono sempre più frequenti.
Qualche settimana fa è circolata la notizia che il governo di Narendra Modi avrebbe commissionato a un centro studi di New Delhi una classifica mondiale delle democrazie. La ragione, pare, è che quelle stilate all’estero non siano gradite. Negli ultimi anni la posizione dell’India in questo tipo di ranking è peggiorata: negli Stati Uniti, Freedom House ha retrocesso il Paese a « partially free democracy » , economia parzialmente libera; nel Regno Unito, l’Economist intelligence unit parla di « flawed democracy » , democrazia imperfetta; in Svezia, il V- Dem Institute è ricorso alla formula « electoral autocracy » , autocrazia elettorale. Lo scorso dicembre il bersaglio erano state le agenzie internazionali di rating come S& P, Fitch e Moody’s, colpevoli – secondo l’ufficio del chief economic advisor del ministero delle Finanze – di non dare il giusto peso ai recenti progressi fatti dall’economia indiana. Colpa di « metodologie opache – si legge – che sembrano penalizzare le economie in via di sviluppo » .
A gennaio 2023 a finire nel mirino era stato Hindenburg Research, uno short seller americano, che aveva pubblicato un report contenente accuse molto gravi nei confronti di Gautam Adani, il presidente di una multinazionale in eccellenti rapporti con il governo. Nell’indignata replica della società di Ahmedabad si leggeva: « Questo non è solo un attacco ingiustificato a una specifica azienda, ma un attacco calcolato all’India, all’indipendenza, all’integrità e alla qualità delle istituzioni indiane, e alla storia di crescita e alle ambizioni dell’India » .
Negli stessi giorni la Bbc si era resa colpevole di trasmettere ( peraltro non in India) un documentario in due puntate intitolato India: The Modi Question su un pogrom di musulmani avvenuto nel 2002 in Gujarat, quando l’attuale premier era il chief minister dello Stato. Per anni il Dipartimento di Stato americano non ha concesso visti diplomatici a Modi, ma oggi il leader indiano viene ricevuto alla Casa Bianca con tutti gli onori. Nel 2022 la Corte Suprema indiana lo ha anche esonerato dalla responsabilità di quei fatti tragici. Tanto sarebbe dovuto bastare. Eppure, il semplice fatto che una tv straniera osasse occuparsi della vicenda ha scatenato ancora una volta una risposta rabbiosa, culminata in un’indagine fiscale sulla succursale locale del broadcaster britannico.
Nella politica interna indiana miscelare vittimismo e aggressività garantisce da qualche anno buoni ritorni elettorali. Che la ricetta funzioni anche a livello internazionale però è dubbio. Oggi che New Delhi sta conquistando – trimestre dopo trimestre e crisi globale dopo crisi globale – un posto di rilievo nell’economia e nella politica mondiali, forse potrebbe valere la pena di provare una nuova strategia. Mettere da parte le vecchie insicurezze, abbassare i toni e ascoltare le critiche. Il soft power che l’India ambisce a esercitare sui palcoscenici internazionali suggerisce di lasciare ad altri Paesi, di minor successo, i panni della vittima.