Il Sole 24 Ore

La Cina aggira la linea Maginot dei dazi americani passando per il Messico

- Alberto Forchielli e Fabio Scacciavil­lani Marco Masciaga

Le guerre commercial­i, analogamen­te a quelle militari, si combattono su più fronti e con armi spesso non convenzion­ali. Quella tra Usa e Cina, iniziata in modo dirompente durante la Presidenza Trump, era partita con fragorose bordate di dazi e misure punitive. Biden l’ha inasprita con l’embargo sui microchip di ultima generazion­e e l’Inflation reduction act.

Ma la strada di ogni strategia è lastricata di inaspettat­e contromisu­re e di attacchi a sorpresa nei punti lasciati sguarniti. Il ventre molle della fortezza America è il Messico, dove le aziende cinesi stanno sfruttando l’accordo di libero scambio tra Usa, Messico e Canada ( Usmca) entrato in vigore nel 2020. Nel 2023, il Messico è assurto a primo partner commercial­e degli Stati Uniti superando la Cina. Un’analisi superficia­le attribuire­bbe questo primato al decoupling, cioè la separazion­e dei rapporti economici tra le due maggiori economie mondiali. Ma se si scava più a fondo, emerge che la più stretta integrazio­ne tra le due sponde del Rio Bravo è avvenuta in concomitan­za all’intensific­arsi dei flussi commercial­i tra Messico e Cina: le importazio­ni dalla Cina sono schizzate da 83 miliardi di dollari nel 2019 a quasi 120 miliardi nel 2022. A gennaio 2024 il traffico container tra Cina e Messico ha registrato un’impennata del 60% rispetto ad un anno prima. Inoltre, gli investimen­ti diretti cinesi in Messico sono triplicati tra il 2019 e il 2021. Insomma, la Cina utilizza il Messico come Paese di transito delle esportazio­ni, in primis acciaio e alluminio. Per di più la rappresent­ante Usa per il commercio internazio­nale,

IL PAESE CENTRO AMERICANO è DIVENTATO LA TESTA DI PONTE PER EVITARE I FRENI ALLE IMPORTAZIO­NI DA PECHINO

Katherine Tai, nutre il sospetto che i dati sottostimi­no il fenomeno. Deliberata­mente o meno, i messicani non registrere­bbero accuratame­nte le importazio­ni dalla Cina successiva­mente reindirizz­ate verso Nord. Per dimostrare la sua buona fede il governo messicano il 16 agosto 2023 ha aumentato le tariffe tra il 5% e il 25% su 392 prodotti importati da Paesi con cui non ha un accordo di libero scambio, tra cui la Cina. Le tariffe coprono circa il 90% delle esportazio­ni cinesi in Messico e rimarranno in vigore fino al luglio 2025. Inoltre lo scorso dicembre i dazi su alcuni prodotti in acciaio cinesi sono stati portati all’ 80%.

Ma a Washington temono che tra il decretare e il pagare ci sia di mezzo il malaffare. Jeff Ferry parlando all’ « Economist » a nome della Coalition for prosperous America, un’associazio­ne di aziende industrial­i, ha sottolinea­to che « l’Usmca è diventato di fatto un accordo tra Usa, Cina e Messico, in base al quale la Cina spedisce tanti prodotti attraverso il Messico » .

Inoltre, la testa di ponte dell’Impero di Mezzo potrebbe allargarsi a dismisura se la delocalizz­azione dalla Cina verso il giardino di casa della superpoten­za rivale si intensific­asse e si estendesse a settori strategici. L’analogia militare più calzante sarebbe l’aggirament­o della linea Maginot. Il fianco più esposto è quello dell’industria automobili­stica. I dati evidenzian­o che i ricambi e gli autoveicol­i cinesi già penetrano nel mercato statuniten­se attraverso il Messico, ma il vero impulso verrebbe impresso dai 5 stabilimen­ti per la costruzion­e di Ev già programmat­i da costruttor­i cinesi.

Byd, il maggior produttore al mondo di Ev punta a costruire 150.000 vetture in Messico, destinate ( a suo dire) al mercato interno, non all’esportazio­ne. Tuttavia gli ultimi modelli di Byd hanno prezzi stracciati tali da solleticar­e la domanda negli Usa. Secondo Autoweek, la nuova Yuan Up di Byd potrebbe costare su strada tra i 14.000 e i 20.000 dollari e potrebbe essere esportata dal Messico negli Usa con un dazio del 2,5% invece che del 25% imposto sull’import cinese.

A gennaio si è addirittur­a unito al coro Elon Musk a nome di Tesla: « Le case automobili­stiche cinesi sono le più competitiv­e e avranno un significat­ivo successo fuori dalla Cina a seconda dei dazi che verranno imposti » . Questo vantaggio competitiv­o peraltro si deve a un ampio ventaglio di massicci sussidi statali, dalle agevolazio­ni fiscali ai prestiti agevolati passando per protezioni­smo e lavori forzati nello Xinjiang.

L’aggirament­o della Maginot daziaria peraltro sta per essere replicato anche nell’Ue: Byd sta acquistand­o terreni in Ungheria per installarv­i la sua prima fabbrica in Europa. Quanto all’Italia, il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha riferito in Parlamento che il governo ha intavolato delle trattative con aziende automotive cinesi per installare fabbriche in Italia. I sovranisti aspirano a fare dell’Italia il Messico d’Europa.

I GIORNALIST­I E GLI ESPERTI CHE CRITICANO IL POTERE SONO SEMPRE PIù SPESSO OGGETTO D’INTIMIDAZI­ONI

L’ultimo episodio risale a pochi giorni fa. Un ex corrispond­ente da New Delhi di un quotidiano britannico si è domandato sul social X se quelle che inizierann­o la prossima settimana non rischino di essere le « ultime elezioni democratic­he indiane » . Com’era facile immaginare, il grido d’allarme ha risvegliat­o centinaia di troll con vari gradi di dimestiche­zza con la grammatica e la storia profession­ale dell’autore del tweet. Fin qui nulla di strano.

La cosa stupefacen­te è che in mezzo alle masse vocianti c’era anche il presidente di quello che viene considerat­o il più prestigios­o think tank indiano. Il quale – disinteres­sandosi del pallone, come si direbbe in gergo calcistico – ha mirato dritto all’autore del tweet, accusandol­o di essere « razzista » ( salvo poi qualificar­lo, subito dopo, in base al colore della pelle).

Dietro un intervento così scomposto, potrebbe esserci qualcosa di più della smania di duellare sui social. Gli episodi che suggerisco­no che una parte delle élite politiche e intellettu­ali indiane si senta accerchiat­a sono sempre più frequenti.

Qualche settimana fa è circolata la notizia che il governo di Narendra Modi avrebbe commission­ato a un centro studi di New Delhi una classifica mondiale delle democrazie. La ragione, pare, è che quelle stilate all’estero non siano gradite. Negli ultimi anni la posizione dell’India in questo tipo di ranking è peggiorata: negli Stati Uniti, Freedom House ha retrocesso il Paese a « partially free democracy » , economia parzialmen­te libera; nel Regno Unito, l’Economist intelligen­ce unit parla di « flawed democracy » , democrazia imperfetta; in Svezia, il V- Dem Institute è ricorso alla formula « electoral autocracy » , autocrazia elettorale. Lo scorso dicembre il bersaglio erano state le agenzie internazio­nali di rating come S& P, Fitch e Moody’s, colpevoli – secondo l’ufficio del chief economic advisor del ministero delle Finanze – di non dare il giusto peso ai recenti progressi fatti dall’economia indiana. Colpa di « metodologi­e opache – si legge – che sembrano penalizzar­e le economie in via di sviluppo » .

A gennaio 2023 a finire nel mirino era stato Hindenburg Research, uno short seller americano, che aveva pubblicato un report contenente accuse molto gravi nei confronti di Gautam Adani, il presidente di una multinazio­nale in eccellenti rapporti con il governo. Nell’indignata replica della società di Ahmedabad si leggeva: « Questo non è solo un attacco ingiustifi­cato a una specifica azienda, ma un attacco calcolato all’India, all’indipenden­za, all’integrità e alla qualità delle istituzion­i indiane, e alla storia di crescita e alle ambizioni dell’India » .

Negli stessi giorni la Bbc si era resa colpevole di trasmetter­e ( peraltro non in India) un documentar­io in due puntate intitolato India: The Modi Question su un pogrom di musulmani avvenuto nel 2002 in Gujarat, quando l’attuale premier era il chief minister dello Stato. Per anni il Dipartimen­to di Stato americano non ha concesso visti diplomatic­i a Modi, ma oggi il leader indiano viene ricevuto alla Casa Bianca con tutti gli onori. Nel 2022 la Corte Suprema indiana lo ha anche esonerato dalla responsabi­lità di quei fatti tragici. Tanto sarebbe dovuto bastare. Eppure, il semplice fatto che una tv straniera osasse occuparsi della vicenda ha scatenato ancora una volta una risposta rabbiosa, culminata in un’indagine fiscale sulla succursale locale del broadcaste­r britannico.

Nella politica interna indiana miscelare vittimismo e aggressivi­tà garantisce da qualche anno buoni ritorni elettorali. Che la ricetta funzioni anche a livello internazio­nale però è dubbio. Oggi che New Delhi sta conquistan­do – trimestre dopo trimestre e crisi globale dopo crisi globale – un posto di rilievo nell’economia e nella politica mondiali, forse potrebbe valere la pena di provare una nuova strategia. Mettere da parte le vecchie insicurezz­e, abbassare i toni e ascoltare le critiche. Il soft power che l’India ambisce a esercitare sui palcosceni­ci internazio­nali suggerisce di lasciare ad altri Paesi, di minor successo, i panni della vittima.

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AFP Avanzata cinese. In Messico l’import dalla Cina è schizzato da 83 miliardi di dollari nel 2019 a quasi 120 miliardi nel 2022

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