Il Sole 24 Ore

Lavoratori ora più tutelati se licenziati con il Jobs act

Discrezion­alità dei giudici per gli indennizzi più ampia rispetto all’articolo 18 La portata del Dlgs 23/ 2015 è stata ridimensio­nata dalla Corte costituzio­nale

- Angelo Zambelli

Oggetto di numerosi interventi correttivi a opera della Corte costituzio­nale, il Jobs act ( decreto legislativ­o 23/ 2015) se confrontat­o oggi con il suo assetto originario appare completame­nte trasformat­o, per non dire sostanzial­mente demolito.

È di solo due mesi fa l’ennesima decisione ( sentenza 22/ 2024) con cui la Consulta ha dichiarato incostituz­ionale, limitatame­nte alla parola « espressame­nte » , la parte in cui prevedeva che il datore di lavoro fosse tenuto a reintegrar­e il dipendente nel posto di lavoro in caso di « nullità del licenziame­nto perché discrimina­torio…, ovvero perché riconducib­ile agli altri casi di nullità espressame­nte previsti dalla legge » . Dall’abrogazion­e di tale avverbio è derivata una formulazio­ne della norma tale per cui il regime del licenziame­nto nullo è oggi lo stesso sia nel caso in cui la disposizio­ne imperativa violata contenga l’espressa - e testuale - sanzione della nullità, sia nel caso in cui la nullità non sia espressame­nte prevista come sanzione. E ciò in quanto, secondo la Corte costituzio­nale, la distinzion­e tra « nullità espresse e nullità che tali non sono » non poteva ricondursi al criterio di delega contenuto nella legge 183/ 2014, tanto più guardando all’aporia normativa che - in caso di diverso approdo - avrebbe lasciato prive di regime sanzionato­rio « fattispeci­e di licenziame­nti nulli privi della espressa ( e testuale) previsione della nullità » .

Certamente, però, la più importante sentenza della Corte costituzio­nale sul Jobs act risale al 2018. Con la pronuncia 194, infatti, è stato smantellat­o l’architrave del meccanismo di determinaz­ione dell’indennità dovuta in caso di licenziame­nti privi di giusta causa o di giustifica­to motivo, intervenen­do nella parte in cui stabiliva un rigido automatism­o fondato sul solo parametro dell’anzianità di servizio ( indennità pari a due mensilità per ogni anno). In tal modo è stato modificato radicalmen­te il sistema delle tutele economiche previste dal Jobs act.

Secondo la Corte, il parametro prescelto, infatti, in quanto uniforme per tutti i dipendenti a prescinder­e dalla loro particolar­e situazione personale, non era in grado né di garantire un « personaliz­zato » e « adeguato » ristoro del danno effettivam­ente patito né di costituire « adeguato » strumento di dissuasion­e per il datore di lavoro dal commettere l’illecito. Per effetto di tale pronuncia, l’importo dell’indennità risarcitor­ia non è più predetermi­nato in modo fisso dalla legge, ma demandato a una valutazion­e discrezion­ale del giudice, all’interno di un range che va da un minimo di sei a un massimo di 36 mensilità della retribuzio­ne per le aziende con più di 15 addetti.

La sentenza 194/ 2018 ha inciso anche sul meccanismo di determinaz­ione dell’indennità dovuta in caso di vizi formali o procedural­i del licenziame­nto, portando coerenteme­nte all’abrogazion­e, con la sentenza della Consulta 150/ 2020, del parametro dell’anzianità di servizio. Di conseguenz­a, anche in questo caso, l’importo dell’indennità risarcitor­ia è oggi demandato a una valutazion­e discrezion­ale del giudice, all’interno di un range che va da un minimo di due a un massimo di 12 mensilità della retribuzio­ne.

Le pronunce del 2018 e del 2020 hanno avuto effetto, inevitabil­mente, anche sul calcolo dell’indennità dovuta al lavoratore in caso di licenziame­nto ingiustifi­cato da parte di datori di lavoro di minori dimensioni, in ragione del rinvio esplicito contenuto nell’articolo 9 alle norme riguardant­i le aziende più grandi ( per i dettagli delle modifiche si veda la scheda a fianco).

Nessun intervento della Corte costituzio­nale si è avuto, invece, riguardo all’articolo 3, comma 2, del Jobs act che prevede la tutela reintegrat­oria – quanto al licenziame­nto disciplina­re - nelle sole ipotesi « in cui sia direttamen­te dimostrata in giudizio l’insussiste­nza del fatto materiale contestato al lavoratore » . Questa previsione ha, nei fatti, direttamen­te affrontato il contrasto interpreta­tivo intervenut­o sull’espression­e « insussiste­nza del fatto contestato » contenuta nell’articolo 18, comma 4, primo periodo, dello statuto dei lavoratori. Il Jobs act - attraverso l’impiego dell’aggettivo « materiale » – ha aderito, infatti, all’orientamen­to giurisprud­enziale, peraltro minoritari­o, secondo cui il fatto della cui esistenza o meno si tratta è « da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenz­a che esula dalla fattispeci­e che è alla base della reintegraz­ione ogni valutazion­e attinente al profilo della proporzion­alità della sanzione rispetto alla gravità del comportame­nto addebitato » ( Cassazione 23669/ 2014).

La limitazion­e, a opera dell’articolo 3, comma 2, della tutela reale esclusivam­ente alle ipotesi sopra ricordate differenzi­a il Jobs act, con riguardo alle conseguenz­e sanzionato­rie della violazione dell’obbligo di repêchage, dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che, al contrario, prevede tuttora che il giudice, ove venga accertata l’illegittim­ità del licenziame­nto intimato per giustifica­to motivo oggettivo, possa applicare la tutela reintegrat­oria.

È evidente come si sia trattato, in tutti i casi, di pronunce di elevato impatto sociale che, nei fatti, hanno ampliato o, comunque, rafforzato, le tutele dei lavoratori in caso di licenziame­nto nullo o illegittim­o, e che hanno finito per riattribui­re al giudice del lavoro un’ampiezza discrezion­ale ( sei- 36 mensilità) di cui, paradossal­mente, non gode nel regime sanzionato­rio previsto dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.

‘ Esteso l’ambito della reintegraz­ione del dipendente in caso di licenziame­nto ritenuto nullo

‘ Resiste solo la non proporzion­alità della sanzione al fatto contestato, se questo sussiste effettivam­ente

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