Morto O. J. Simpson, star sportiva e del processo del secolo
Il campione afroamericano aveva 76 anni, specchio scomodo del Paese
La lunga, tortuosa, corsa di O. J. Simpson è finita, fermata a 76 anni da un tumore alla prostata. Una corsa letterale, è stato tra i più grandi atleti statunitensi, detentore di molteplici primati nello sport a stelle e strisce per eccellenza, il football americano. Capace di elusivo crossover appeal, campione afroamericano che trascende barriere in un alone hollywoodiano. Ma anche e soprattutto una corsa metaforica, tra le contraddizioni e i traumi dell’America di ieri e oggi quando in gioco sono relazioni razziali e giustizia. All’immagine dei successi sul campo e sullo schermo, in popolari film quali “Una pallottola spuntata”, si sovrappone quella del fuggiasco protagonista d’un inseguimento al rallentatore in diretta Tv, poi in manette e sotto processo per l’efferato omicidio della ex moglie e di un amico. Una saga legale scolpita nella memoria collettiva e culminata con verdetti contrastanti: una discussa assoluzione in sede penale seguita da una condanna invece in sede civile.
OJ Simpson aveva iniziato a fare storia nello sport. Cresciuto nei ghetti di San Francisco, le sue abilità emersero all’università dove brillò nella squadra della University of Southern California nel ruolo di running back, nel gioco di corsa. Nel 1969 fu la prima scelta nella selezione annuale dei giovani talenti destinati al professionismo, da parte dei Buffalo Bills per cui giocò 11 stagioni, soprannominato “juice” in omaggio alle giocate elettrizzanti e inanellando salari allora record e onori pur senza riuscire a vincere una finale del campionato. Al contempo, era decollata anche la sua carriera di attore, al cinema e in pubblicità – memorabili gli spot per la Hertz ( moltiplicarono brand recognition e profitti). Celebrato dalla rivista People quale « primo atleta black a diventare vera e amata superstar mediatica » , si ritirò nel 1979 con un patrimonio personale stimato in dieci milioni ma un’influenza che andava ben oltre.
La parabola tragica era però in agguato. Aveva sposato la seconda moglie, Nicole Brown, nel 1985, una relazione finita in divorzio sette anni dopo e segnata da decine di episodi di violenza domestica. E nel 1994 Brown assieme a Ron Goldman fu accoltellata a morte a Los Angeles davanti al suo appartamento. Simpson, accusato del delitto, costrinse la polizia a un lento inseguimento in una Ford Bronco che si concluse con la sua resa sotto gli occhi 95 milioni di telespettatori, con i canali che per seguirla interruppero le finali Nba del basket. Il processo “del secolo” durò undici mesi con 126 testimoni, 1.105 prove depositate, 45.000 pagine di trascrizioni. Nonostante prove parse schiaccianti, esplosero polemiche su irregolarità nelle indagini e la giuria decise l’assoluzione; un caso civile portato dalle famiglie delle vittime lo vide invece successivamente condannato a 33 milioni di risarcimenti. Abbastanza per nutrire un’industria di decine di libri, documentari, film e speciali Tv.
La battaglia legale, più ancora che su meriti e demeriti delle parti e spettacoli nei media, puntò i riflettori sulle sempre dirompenti divisioni che lacerano il Paese. Gli osservatori sottolinearono come la giuria che lo assolse fosse a maggioranza di colore, quella che lo condannò bianca. E la vicenda di Simpson valicò così non solo i confini dello sport ma quelli dei tribunali.
Divenne « specchio incrinato » , nelle parole del New York Times, delle distorsioni d’una cultura e società tanto nutrita di eroi e celebrità quanto inadeguata a fare i conti con malesseri profondi quali appunto il problema razziale, la vecchia “color line” spesso tuttora invalicabile. Nei sondaggi post- verdetti molti afroamericani rimasero propensi a credere Simpson innocente, schiaccianti maggioranze di bianchi lo ritennero colpevole. Da quei giorni Simpson svanì progressivamente dal palcoscenico in una spirale di declino: finì in Florida per sfuggire al fisco e scontò nove anni di carcere per rapina a mano armata a Las Vegas di souvenir sportivi. Più che di imprese sportive e processi, il suo volto rimane tuttavia uno specchio scomodo dell’America.