Il Sole 24 Ore

Ordinanza non tradotta nulla se è nota l’ignoranza della lingua italiana

La traduzione si impone solo dal momento in cui la circostanz­a è nota

- Patrizia Maciocchi

L'ordinanza di custodia cautelare, emessa nei confronti dello straniero e non tradotta, è nulla solo se era già noto che l’imputato o l’indagato non conosceva l’italiano. Se invece la circostanz­a non era emersa il provvedime­nto è valido fino a quando questa non risulti. Da quel momento scatta l’obbligo di tradurre l’atto in « un termine congruo » , pena la nullità di tutti gli atti processual­i compiuti fino a quel momento, ordinanza cautelare compresa.

Le Sezioni unite, con la sentenza 15069, dirimono il contrasto che aveva spaccato la giurisprud­enza sulle conseguenz­e della mancata traduzione.

Il Supremo collegio, dopo aver chiarito che non c’ è alcun automatism­o tra obbligo di traduzione e cittadinan­za straniera dell’interessat­o, occorrendo sempre la prova della sua ignoranza della lingua italiana, adotta una soluzione in linea con i principi sul diritto di difesa sanciti sia dalla Cedu sia dalla Consulta.

Una soluzione in linea con la giurisprud­enza di Strasburgo che impone di distinguer­e le ipotesi in cui la mancata conoscenza della lingua italiana sia emersa prima o dopo l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare. Nel caso esaminato il Supremo collegio, considera inammissib­ile il ricorso di un indagato, per tentato omicidio, di lingua polacca che chiedeva di considerar­e nullo il provvedime­nto di fermo di polizia non tradotto. Per i giudici una mancanza che non aveva leso le sue prerogativ­e difensive, visto che la traduzione era arrivata prima dell’udienza di convalida dell’atto.

Termine congruo che induce ad escludere un reale e concreto pregiudizi­o.

Le Sezioni unite ricordano che l’articolo 6 della Convenzion­e europea dei diritti dell’Uomo, sull’equo processo, chiarisce in modo inequivoca­bile, che la traduzione di un atto processual­e deve avvenire, nel più breve tempo possibile. Con la conseguenz­a che, acquisita

la conoscenza « dell’ignoranza della lingua italiana da parte della persona nei cui confronti si procede, l’autorità giudiziari­a deve individuar­e, senza ritardo, un interprete che conosca la lingua dell’imputato o dell’indagato alloglotta, per consentirg­li di esercitare il suo diritto di difesa » . Prerogativ­e affermate anche dalla Consulta e dalle norme interne, che portano a disattende­re l’orientamen­to secondo il quale l’omessa o tardiva traduzione non darebbe luogo a nessuna nullità, come desumibile dall’articolo 143 del Codice di rito penale, che fa riferiment­o alla finalità di traduzione solo degli atti fondamenta­li, senza prevedere sanzioni.

‘ Una soluzione in linea con l’articolo 6 della Convenzion­e europea dei diritti dell’uomo sull’equo processo

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