Il Sole 24 Ore

« La qualità dei prodotti italiani sarà più forte delle crisi internazio­nali »

- Presidente di Federvini ( Confindust­ria) Giorgio dell’Orefice

« Una vendemmia in forte calo come quella 2023, anni fa sarebbe stato un problema. Purtroppo invece in questo momento il crollo produttivo è stato sentito meno su un mercato che non tira così come in passato. E questo ha spinto il nostro settore a una riflession­e sul proprio futuro » .

A passare in rassegna le principali sfide del settore vitivinico­lo alla vigilia del 56esimo Vinitaly di Verona, è la presidente di Federvini, Micaela Pallini. « Un futuro – aggiunge - che sarà fatto sempre più di produzioni di qualità che sono quelle nei confronti delle quali il mercato mostra più interesse. Se si vanno a disaggrega­re i dati si nota che sono state penalizzat­e aree e produzioni ancora concentrat­e sui volumi mentre chi ha lavorato di più sulla qualità, con meno intensità e più controllo del vigneto, è riuscito a salvare il risultato della vendemmia » .

Lei crede? Dai dati sulle esportazio­ni emerge un rimbalzo dei vini sfusi low cost e una difficoltà dei vini fermi a denominazi­one in particolar­e rossi. La qualità non paga più?

Conosco le tendenze e non nego che siamo in una congiuntur­a che vede un rallentame­nto della domanda, ma non condivido le conclusion­i. Se si vanno a vedere le denominazi­oni più conosciute e note la crisi si sente meno e si vede il futuro in maniera più rosea.

Il fatturato dell’export è calato nonostante l’inflazione.

All’estero e in particolar­e nei paesi del Nord Europa a cominciare dalla Germania c’è una grande attenzione al costo della vita e si innescano immediatam­ente trasformaz­ioni di mercato improntate ai prodotti low cost. Da qui l’exploit del vino sfuso. In quei paesi si vendono bollicine alla spina spesso spumantizz­ate in loco partendo da vini fermi italiani. Ma è anche grazie a questa fetta della produzione che quei mercati hanno tenuto contribuen­do a limitare i danni sulle esportazio­ni.

Preoccupa il nostro primo sbocco, gli Usa, mercato che lei conosce bene.

Negli Stati Uniti ci sono stati vari fattori negativi concomitan­ti. C’è stato il fenomeno del destoking: molti buyer, grossisti e ristorator­i hanno acquistato grandi quantità di vino nell’immediato post Covid. Da un lato avevano giacenze da smaltire. Dall’altro i rialzi nel costo del denaro hanno raffreddat­o i nuovi acquisti. Agli imprendito­ri è apparso poco convenient­e avere denaro immobilizz­ato in cantina. Con i tassi alti meglio avere liquidità disponibil­e anche a rischio di restare senza vino per i propri clienti. Senza contare che il rialzo dei tassi ha frenato anche gli acquisti dei consumator­i finali che negli Usa fanno un largo ricorso al debito. Ma i fondamenta­li dell’economia Usa sono buoni. La disoccupaz­ione è ai minimi e una volta superate le incertezze dovute agli scenari internazio­nali e alle elezioni americane sono certa che i consumi riprendera­nno a correre. Gli Stati Uniti sono così: si bloccano all’improvviso ma all’improvviso ripartono.

Il cambiament­o in atto nei consumi è un dato di fatto.

Certo è qualcosa su cui riflettere. I giovani sono meno attratti dal vino. Ma in genere all’uscita dal Covid si è diffusa una voglia di consumi meno impegnativ­i e prodotti più semplici. Si esce più per un drink, un aperitivo che per una cena. Di conseguenz­a bisogna cambiare anche il modo di proporre il vino.

Poi c’è la frontiera delle bevande low alcohol o alcohol free.

Alcuni lo stanno trasforman­do in un tema filosofico. Io sono d’accordo che il vino è quello con l’alcol. E lo dico da chimico. L’alcol non è solo una componente ma svolge compiti precisi nel vino, serve a trasportar­e gli aromi, a dare intensità, a veicolare i profumi, aiuta a stabilizza­re e ad estrarre. Però non è questo in discussion­e. Ma il fatto che c’è una domanda di mercato interessan­te alla quale bisogna dare risposte. Perché non accettare la sfida e provare a essere i più bravi anche sull’innovazion­e? La realtà è che gli altri stanno andando avanti su questo fronte e noi rischiamo di restare isolati.

L’altro grande tema è quello dell’offensiva salutista che non sembra rallentare.

Vero. Dopo la legge sugli health warnings irlandese è arrivata anche quella belga che impone avvertenze sui rischi per la salute in ogni comunicazi­one sulle bevande alcoliche, comprese le etichette. È un tema sul quale, in Europa, ci sentiamo orfani. Orfani della Francia paese produttore che, inspiegabi­lmente, su questo argomento ha scelto una posizione defilata. In particolar­e, la norma belga sulla pubblicità è preoccupan­te. In Italia abbiamo un codice di autoregola­mentazione pubblicita­ria tra i più severi e dovremo subire le regole decise dal Belgio. Ma soprattutt­o ci chiediamo: dal momento che il Parlamento Europeo ha votato contro gli health warnings in etichetta, a che serve l’Europa se ogni paese va poi per conto suo?

 ?? ?? Micaela Pallini. Presidente di Federvini che raccoglie produttori, esportator­i e importator­i di vini, liquori e aceti
Micaela Pallini. Presidente di Federvini che raccoglie produttori, esportator­i e importator­i di vini, liquori e aceti

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