I senza alcol non sono più una nicchia
Il mercato americano ha trainato tutto il segmento dei vini a bassa gradazione o totalmente dealcolati che hanno avuto successo in particolare tra i giovani. Raggiunto un miliardo di dollari di fatturato ( 108 milioni di bottiglie)
Sul principale mercato per le etichette made in Italy, gli Stati Uniti ( 1,76 miliardi di fatturato e una quota sul totale del 22,6%), i vini low alcohol hanno raggiunto un fatturato di un miliardo di dollari per quasi 9 milioni di casse ( 108 milioni di bottiglie). Se a questi si aggiungono i prodotti alcohol free, in crescita ma ancora su volumi limitati, si raggiunge comunque una fetta significativa del mercato Usa. Tutt’altro che una nicchia.
È quanto emerge dal report dedicato ai cambiamenti nei consumi di vino degli americani realizzato dall’Osservatorio Uiv- Vinitaly e che sarà presentato nel corso della manifestazione veronese. E dallo studio emerge in maniera evidente come negli anni e tra le diverse generazioni di consumatori Usa sia cambiata completamente la percezione del vino italiano e contemporaneamente siano emerse categorie di prodotti che fino a non molto tempo fa neanche esistevano come appunto i vini “NoLo” ovvero “no” oppure “low” alcol.
« A differenza dei più anziani – spiega il responsabile dell’Osservatorio Uiv- Vinitaly, Carlo Flamini – per i quali il vino italiano era rosso ( Lambrusco prima, Chianti poi) per i giovani di oggi il vino made in Italy è bianco ( Pinot Grigio) o spumante ( Prosecco). Ma soprattutto i giovani bevono meno vino. Secondo un recente sondaggio della Gallup il vino negli Usa è la bevanda meno presente tra i giovani con una penetrazione del 13% contro il 30% di spirits e birra. Mentre sale al 23% per i consumatori con più di 70 anni » .
Alla questione anagrafica va intrecciata poi quella etnica. Nella fascia d’età 18- 24 i consumatori bianchi sono ancora il 50% ma negli stati del Sud come California e Texas la percentuale di ispanici è molto superiore. E tra gli ispanici l’incidenza del vino è al 15% contro il 40% di birra e spirits mentre tra gli afroamericani 15% vino e 27% birra e spirits.
Ma soprattutto stanno emergendo in maniera forte i nuovi prodotti con meno alcohol, meno zucchero e calorie. « I vini e le bevande a base di vino con meno di 7 gradi alcol – aggiungono all’Osservatorio Uiv- Vinitaly – sono stati protagonisti negli ultimi anni di una cavalcata che li ha portati a non essere più una scelta secondaria rispetto al vino classico » .
Uno degli aspetti più paradossali è che in questo trend di mercato l’Italia, nonostante nel nostro paese la legge, il Testo Unico del vino ( legge 238 del 2016), non consenta di produrre una bevanda e chiamarla “vino” se ha meno di 8 gradi alcol, è ben presente con una propria offerta sui mercati.
E lo è grazie ai prodotti di aziende come la “Stella Rosa” impresa piemontese ma di proprietà Usa ( passata dal milione di casse del 2015 agli oltre 7 del 2022). Grazie a un ricco portafoglio di vini aromatizzati a bassa gradazione prodotti anche da uve piemontesi come Brachetto o Moscato, il brand italocaliforniano ha registrato negli ultimi un tasso di crescita sul mercato Usa di oltre il 40% l’anno.
Ma performance molto positive le ha fatte registrare pure una griffe della cooperazione viticola nazionale come la Cavit, che con un’unica referenza, il vino rosso dolce Roscato Wine, ha realizzato lo scorso anno un fatturato superiore ai 40 milioni di euro. Aziende che – beninteso – non infrangono la legge italiana perché non chiamano questi prodotti “vino” e li realizzano esclusivamente per i mercati esteri. « Senza dimenticare l’ultima frontiera – prosegue Flamini – anch’essa in grande crescita tra i giovani americani delle bevande, anche a base di vino ma con poco alcol e poco zucchero. In sostanza con poche calorie » .
Insomma, il trend di mercato è chiaro tanto che alcune aziende italiane si sono già attrezzate per giocare un ruolo da protagonista ma l’impianto normativo frena i produttori italiani dal cimentarsi con questo nuovo business.
« L’Unione italiana vini – ha aggiunto il segretario generale Uiv,
Paolo Castelletti - è convinta che i vini dealcolati possano rappresentare una occasione complementare di business per viticoltori e imprese e non per l’industria delle bevande. Il focus che presentiamo a Vinitaly certifica l’appeal del segmento non solo tra chi, per motivi salutistici e religiosi, non può o non vuole assumere alcol, ma anche tra giovani e winelover che in situazioni specifiche optano per il no alcol. A oggi però l’Italia è l’unico tra i grandi Paesi produttori europei a non poter commercializzare la tipologia in quanto non ci si è ancora uniformati – attraverso una modifica al testo unico del vino – al regolamento europeo già emanato oltre 2 anni fa e il risultato è che stiamo perdendo terreno importante. Le aziende del vino ce lo chiedono da tempo » .
Per i viticoltori i dealcolati sono un’occasione di crescita frenata dal divieto di commercio in Italia