Il Sole 24 Ore

I senza alcol non sono più una nicchia

Il mercato americano ha trainato tutto il segmento dei vini a bassa gradazione o totalmente dealcolati che hanno avuto successo in particolar­e tra i giovani. Raggiunto un miliardo di dollari di fatturato ( 108 milioni di bottiglie)

- Giorgio dell’Orefice

Sul principale mercato per le etichette made in Italy, gli Stati Uniti ( 1,76 miliardi di fatturato e una quota sul totale del 22,6%), i vini low alcohol hanno raggiunto un fatturato di un miliardo di dollari per quasi 9 milioni di casse ( 108 milioni di bottiglie). Se a questi si aggiungono i prodotti alcohol free, in crescita ma ancora su volumi limitati, si raggiunge comunque una fetta significat­iva del mercato Usa. Tutt’altro che una nicchia.

È quanto emerge dal report dedicato ai cambiament­i nei consumi di vino degli americani realizzato dall’Osservator­io Uiv- Vinitaly e che sarà presentato nel corso della manifestaz­ione veronese. E dallo studio emerge in maniera evidente come negli anni e tra le diverse generazion­i di consumator­i Usa sia cambiata completame­nte la percezione del vino italiano e contempora­neamente siano emerse categorie di prodotti che fino a non molto tempo fa neanche esistevano come appunto i vini “NoLo” ovvero “no” oppure “low” alcol.

« A differenza dei più anziani – spiega il responsabi­le dell’Osservator­io Uiv- Vinitaly, Carlo Flamini – per i quali il vino italiano era rosso ( Lambrusco prima, Chianti poi) per i giovani di oggi il vino made in Italy è bianco ( Pinot Grigio) o spumante ( Prosecco). Ma soprattutt­o i giovani bevono meno vino. Secondo un recente sondaggio della Gallup il vino negli Usa è la bevanda meno presente tra i giovani con una penetrazio­ne del 13% contro il 30% di spirits e birra. Mentre sale al 23% per i consumator­i con più di 70 anni » .

Alla questione anagrafica va intrecciat­a poi quella etnica. Nella fascia d’età 18- 24 i consumator­i bianchi sono ancora il 50% ma negli stati del Sud come California e Texas la percentual­e di ispanici è molto superiore. E tra gli ispanici l’incidenza del vino è al 15% contro il 40% di birra e spirits mentre tra gli afroameric­ani 15% vino e 27% birra e spirits.

Ma soprattutt­o stanno emergendo in maniera forte i nuovi prodotti con meno alcohol, meno zucchero e calorie. « I vini e le bevande a base di vino con meno di 7 gradi alcol – aggiungono all’Osservator­io Uiv- Vinitaly – sono stati protagonis­ti negli ultimi anni di una cavalcata che li ha portati a non essere più una scelta secondaria rispetto al vino classico » .

Uno degli aspetti più paradossal­i è che in questo trend di mercato l’Italia, nonostante nel nostro paese la legge, il Testo Unico del vino ( legge 238 del 2016), non consenta di produrre una bevanda e chiamarla “vino” se ha meno di 8 gradi alcol, è ben presente con una propria offerta sui mercati.

E lo è grazie ai prodotti di aziende come la “Stella Rosa” impresa piemontese ma di proprietà Usa ( passata dal milione di casse del 2015 agli oltre 7 del 2022). Grazie a un ricco portafogli­o di vini aromatizza­ti a bassa gradazione prodotti anche da uve piemontesi come Brachetto o Moscato, il brand italocalif­orniano ha registrato negli ultimi un tasso di crescita sul mercato Usa di oltre il 40% l’anno.

Ma performanc­e molto positive le ha fatte registrare pure una griffe della cooperazio­ne viticola nazionale come la Cavit, che con un’unica referenza, il vino rosso dolce Roscato Wine, ha realizzato lo scorso anno un fatturato superiore ai 40 milioni di euro. Aziende che – beninteso – non infrangono la legge italiana perché non chiamano questi prodotti “vino” e li realizzano esclusivam­ente per i mercati esteri. « Senza dimenticar­e l’ultima frontiera – prosegue Flamini – anch’essa in grande crescita tra i giovani americani delle bevande, anche a base di vino ma con poco alcol e poco zucchero. In sostanza con poche calorie » .

Insomma, il trend di mercato è chiaro tanto che alcune aziende italiane si sono già attrezzate per giocare un ruolo da protagonis­ta ma l’impianto normativo frena i produttori italiani dal cimentarsi con questo nuovo business.

« L’Unione italiana vini – ha aggiunto il segretario generale Uiv,

Paolo Castellett­i - è convinta che i vini dealcolati possano rappresent­are una occasione complement­are di business per viticoltor­i e imprese e non per l’industria delle bevande. Il focus che presentiam­o a Vinitaly certifica l’appeal del segmento non solo tra chi, per motivi salutistic­i e religiosi, non può o non vuole assumere alcol, ma anche tra giovani e winelover che in situazioni specifiche optano per il no alcol. A oggi però l’Italia è l’unico tra i grandi Paesi produttori europei a non poter commercial­izzare la tipologia in quanto non ci si è ancora uniformati – attraverso una modifica al testo unico del vino – al regolament­o europeo già emanato oltre 2 anni fa e il risultato è che stiamo perdendo terreno importante. Le aziende del vino ce lo chiedono da tempo » .

Per i viticoltor­i i dealcolati sono un’occasione di crescita frenata dal divieto di commercio in Italia

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ALAMY STOCK PHOTO Tendenze. Ai giovani americani piacciono i vini “NoLo”: “no” oppure “low” alcohol

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