Il Sole 24 Ore

Usa inquieti: il futuro brilla a Palo Alto, un po’ meno a New York

Verso le Presidenzi­ali

- Maria Latella

SREPORTAGE DALL’AMERICA, CHE SI DIBATTE TRA CRESCITA E NOSTALGIA, CON GLI AFROAMERIC­ANI AI MARGINI

ulla Highway che da Palo Alto porta a San Francisco, due maxi cartelloni a poca distanza. « Non devi essere ebreo per difendere gli ebrei » . Duecento metri dopo: « Israele ha ucciso diecimila bambini con le nostre tasse » . Poi entri a San Francisco, trovi che Union Square è cambiata, non è più il concentrat­o di morituri da Fentanyl. Ma i consumator­i a cielo aperto di crack, eroina e oppiodi ci sono ancora, poco distanti, nell’area del Tenderloin, e infatti un terzo maxi cartellone informa « Naloxon can reverse opiod overdose » .

Benvenuti nell’America della più surreale campagna elettorale, quella in cui una parte della popolazion­e spera che “il grande truffatore” non arrivi alle elezioni, mentre l’altra spera di conservare i privilegi che Trump ha garantito o almeno di conservare i sogni e la rabbia, visto che a votarlo è anche gente che vive nelle roulotte con pochi dollari in tasca. Nell’America dove il film che fa discutere si intitola Civil war, quattro giornalist­i in viaggio negli Stati Uniti che non sono più uniti, con un presidente che dalla Casa Bianca è in guerra con le Western Forces ribelli di California e Texas. A proposito di California, San Francisco, naturalmen­te, vota democratic­o e cerca di ripulirsi l’immagine, di essere meno contraddit­toria. È la città degli unicorni, di Open Ai che ha sede in un bellissimo palazzo tutto legno e cristallo ( ma fuori non c’è alcuna targa, nessuno sa che là pensa e lavora Sam Altman). San Francisco è la capitale dell’America del futuro, ma è anche la città che richiama disperati e diseredati da tutti gli Stati Uniti. A quaranta minuti di distanza, intanto, va in onda un altro film. Un film alla Frank Capra. Sole, sorrisi, gentilezza. Siamo a Palo Alto, tutto quello che gli Usa vorrebbero essere e non sono più. Viali con villette dal prato ben curato, ottime scuole pubbliche, bambini che vanno e vengono in bicicletta, abitanti che se ti incrociano sorridono e salutano. Palo Alto ha quello che, altrove, l’America ha perso: la sensazione di vivere in un mondo protetto, sicuro. La polizia non si vede, ma arriva in cinque minuti se la chiami. I parchi sono aperti, « Puoi andare a correre alle sei del mattino e sai che non ti succederà niente. Mai avrei potuto farlo a Milano » , racconta una dei tanti europei trasferita qui.

Palo Alto è un concentrat­o di cervelli e talenti arrivati da tutto il mondo perché qui ci sono Apple, Meta, tutte le tech e l’Università di Stanford. Ci abita Zuckerberg, insieme a trenta/ quarantenn­i cinesi, soprattutt­o cinesi, ma anche indiani e naturalmen­te italiani, svedesi, brasiliani. Una casa con giardino, soggiorno, due stanze, due bagni costa 8 milioni di dollari. Da Nobu dove « Ladies have lunch » , per un pranzo per due paghi 160 dollari. Puoi permettert­elo se vivi “dalla parte giusta del fiume”, dove sul prato di casa i cartelli invitano a votare per il locale candidato democratic­o, dove tutti hanno un cane ( prediletti i poodle giganti), una Jeep ( o Mercedes) e una Tesla. Se invece vivi dalla parte “sbagliata” del fiume, di solito sei immigrato, di giorno passi “di qua” per lavorare e la sera torni dove le case sono malmesse e i prati non ci sono.

L’America delle divisioni esiste, si allarga ma ha anche un grande bisogno di unirsi. Per questo, forse, Philip, imprendito­re sessantenn­e, e sua moglie Melanie, dipendente dell’Università di San Diego, trascorron­o molto tempo nella loro chiesa. Il rito è protestant­e ma non è tanto per il rito che ci vanno. È per far parte di una comunità. Ogni tot mesi Philip attraversa il vicino confine, va in Messico con altri benestanti come lui. Vanno a costruire case prefabbric­ate per chi non ne ha. « Non è difficile, impari ad assemblare i pezzi in pochi giorni. E quando, dopo un paio di mesi, sono tornato a trovare la famiglia a cui avevamo donato una casa, quasi non li riconoscev­o. Avevano cambiato faccia. Erano felici » .

È la domenica di Pasqua, da San Diego siamo tornati a San Francisco. Il bisogno di ritrovarsi, uniti nello stesso credo, spinge verso la 16ma strada 20mila sessantenn­i o giù di lì. I Boomers hanno estratto dall’armadio il chiodo di pelle nera, e marciano allegri verso il Chase Center. Li attende il loro Pastore, Bruce Springstee­n, settantenn­e in forma smagliante che per tre ore li farà cantare, ballare. Li farà sentire parte della stessa America. È un concerto, bellissimo, ma somiglia a una messa. Così, a un certo punto, mi capita di scambiare il segno della pace con la sconosciut­a seduta vicino a me. Battiamo il cinque, ma il senso è lo stesso.

L’America della nostalgia, del come eravamo e del come si stava bene, si ritrova tra le pantere grigie arrivate al Chase Center per Bruce Springstee­n e – paradossal­mente – si ritrova pure tra i trentenni del tech che lavorano nel futuro ma vivono a Palo Alto come fossero dentro la sit- com anni 50 I love Lucy, quella con Lucille Ball e Desi Arnaz.

C’è la voglia di ritrovarsi Uniti per respingere l’incubo della disunità, l’incubo proiettato dal film Civil war. Ma un’altra cosa accomuna l’America che incrocio dalla California alla East Coast: dal concerto di Springstee­n ai parchi di Palo Alto, vedo quasi solo bianchi, come se gli afroameric­ani avessero, per dirla con Truman Capote, « altri luoghi, altre

Manhattan » . Domenica sera, Broadhurst Theatre, Broadway, terra dei musical. Anche qui operazione nostalgia, si va per ricordare la vita e soprattutt­o le canzoni di Neal Diamond, il cantautore di Sweet Caroline. Sala piena, coppie e famiglie venute per il weekend a New York. Mi guardo in giro, ma gli afroameric­ani sono pochissimi. « Un biglietto costa almeno cento dollari » , spiega pragmatico un mio vicino di posto. Il paradosso è che si incrociano quasi solo bianchi pure nelle sale del Metropolit­an Museum dedicate alla mostra « Harlem Renassainc­e » , gli artisti neri che all’inizio del Novecento crearono una corrente allora molto nota. La mostra è bella, ma intercetto solo una coppia afroameric­ana. « Come mai soltanto voi? – chiedo –. Come mai le sale sono piene ma i visitatori sono bianchi? » . « Non è una mostra molto pubblicizz­ata – mi rispondono –. Noi per esempio l’abbiamo saputo per caso » . Per caso. Esco dal Metropolit­an chiedendom­i se anche i canali di informazio­ne ormai sono rigidament­e separati in questo Paese. I turisti sanno che c’è « Harlem Renassainc­e » ma gli afroameric­ani di New York no. C’è un presente che inquieta, in questa America oggi. C’è un futuro che sembra brillante a Palo Alto ma molto meno a New York: in 500mila hanno lasciato Manhattan negli ultimi tempi e il consolato italiano ( come altri consolati europei) è subissato da richieste di italoameri­cani che chiedono la nostra cittadinan­za. Perché? « Non si sa mai » .

Certo, la nostalgia del passato non è una novità e in fondo la interpreta­no anche i due sfidanti per la Casa Bianca. Trump promette l’America grande « di prima » , Biden è convinto di rappresent­arla, l’America positiva della sua giovinezza. « Mio fratello è un uomo perbene » , mi dirà Valerie Biden dal palco al quale, a Manhattan, ha parlato a tremila studenti riuniti nell’evento I diplomatic­i - Change the world.

E se la nostalgia non bastasse a lenire rabbia, delusione, inquietudi­ne? Beh, c’è sempre la cannabis. A Manhattan si respira anche se non fumi, l’odore si percepisce ovunque. E così, segno dei tempi, sulla Fifth Avenue, al posto di un grande negozio di abbigliame­nto, sta per aprire “The travel agency. A cannabis store”. Il più grande ed elegante di Manhattan.

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EPA Al voto. I cittadini degli Usa saranno chiamati il 5 novembre ad eleggere il loro presidente: in corsa Joe Biden e Donald Trump

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