Il Sole 24 Ore

Del lavoratore non salva l’azienda

Per la giurisprud­enza occorre un comportame­nto abnorme del dipendente

- Alessandro De Nicola sempre più conto.

In tema di infortuni sul lavoro, la negligenza del lavoratore nell’adempiere alle prescrizio­ni della normativa antinfortu­nistica potrebbe non essere sufficient­e a esimere da responsabi­lità il datore di lavoro nel caso di lesioni causate da un incidente cui il lavoratore stesso abbia contribuit­o col suo comportame­nto.

Scritta così l’affermazio­ne potrebbe sembrare un po’ controintu­itiva: se il dipendente non ha seguito le istruzioni, ponendo in essere un comportame­nto irresponsa­bile, perché mai l’impresa dovrebbe esserne responsabi­le? Eppure la giurisprud­enza sembra seguire, seppure con diverse sfumature, questa linea di ragionamen­to, come dimostra la sentenza della Corte di cassazione 12326/ 2024 del 26 marzo che ha confermato la condanna a carico del datore di lavoro per un incidente mortale occorso a un dipendente, nonostante quest’ultimo avesse violato le direttive ricevute eseguendo attività espressame­nte vietate.

La Corte, infatti, ha affermato che, qualora l’evento sia riconducib­ile alla violazione da parte dell’imprendito­re « di una molteplici­tà di disposizio­ni in materia di prevenzion­e e sicurezza del lavoro, il comportame­nto del lavoratore che abbia disapplica­to elementari norme di sicurezza non può considerar­si eccentrico o esorbitant­e dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia in quanto l’inesistenz­a di qualsiasi forma di tutela determina un ampliament­o della stessa sfera di rischio » . Anzi, la Suprema corte ha precisato che, perché si possa considerar­e il comportame­nto negligente, imprudente e imperito da parte del lavoratore ( « pur tenuto in esplicazio­ne delle mansioni allo stesso affidate » ) come « concretizz­azione di un rischio eccentrico, con esclusione della responsabi­lità del garante, è necessario che questi abbia predispost­o anche le cautele che sono finalizzat­e proprio alla disciplina e governo del rischio di comportame­nto imprudente » .

La condotta del lavoratore deve essere insomma particolar­mente sconsidera­ta perché essa venga ritenuta un’esimente della responsabi­lità datoriale. Infatti, l’imprendito­re dovrebbe aver previsto ed essere in grado di conoscere pure la possibile distrazion­e o imperizia del dipendente ( le cosiddette “prassi elusive seguite dai lavoratori”) nell’approntare le misure di sicurezza: avrebbe dovuto cioè essere super previdente. Non solo: avrebbe dovuto vigilare per impedire l’instaurazi­one di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori. Anche la giurisprud­enza precedente parla difatti di comportame­nti abnormi e al di fuori delle mansioni assegnate al lavoratore, imprevedib­ili, qualcosa cioè di « radicalmen­te ed ontologica­mente lontano dalle ipotizzabi­li e quindi prevedibil­i imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro » .

Addirittur­a, in presenza di violazioni della materia infortunis­tica da parte del datore ( nel caso specifico, mancanza di formazione, assenza di strumenti di salvaguard­ia o di un secondo lavoratore che assistesse il primo) è irrilevant­e pure che il dipendente abbia violato le direttive concretame­nte « impartite se il comportame­nto non sia stato abnorme e che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento » .

La sentenza si segnala per la sovrabbond­ante reiterazio­ne di caratteriz­zazioni del contegno del lavoratore affinché esso sia ritenuto responsabi­le dell’infortunio occorsogli. Per ricondurre tale tassonomia a categorie civilistic­he generali, si può dire che sul datore di lavoro grava un obbligo di diligenza rafforzata, tipica dell’attività imprendito­riale, tale che l’approntame­nto mero delle cautele potrebbe non essere sufficient­e se non ci si accerti anche del loro concreto rispetto da parte del la

Un livello di concorso di colpa eviterebbe di deresponsa­bilizzare completame­nte il lavoratore

voratore e non si preveda la possibilit­à di un suo comportame­nto negligente. Il dipendente, invece, interrompe il nesso causale tra responsabi­lità del datore ed evento dannoso se agisce con colpa grave da intendersi straordina­ria, ravvisabil­e nella condotta di colui che agisce con inescusabi­le imprudenza, compiendo un errore grossolano e non scusabile e, relativame­nte alla normativa antiinfort­unistica, imprevedib­ile, abnorme e al di fuori delle mansioni.

Da un punto di vista di analisi economica del diritto, tale suddivisio­ne di responsabi­lità è economicam­ente efficiente nel senso che sposta la responsabi­lità del danno su chi è più in grado di prevenirlo e ha maggior conoscenza dei possibili rischi, ossia l’imprendito­re, sebbene sia desiderabi­le prevedere altresì un certo livello di concorso di colpa per non deresponsa­bilizzare completame­nte il dipendente. Nel clima di particolar­e attenzione che nel Paese si registra sulla questione degli infortuni sul lavoro è probabile che l’allocazion­e della responsabi­lità al datore di lavoro sia una tendenza destinata a crescere e sarà perciò bene che di ciò le imprese ne tengano

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