Pensioni integrative frenate da cuneo, Tfr e investimenti
Rapporto Ambrosetti- Fondo Perseo Sirio: con l’ 86% di adesioni a forme complementari nel 2050 il tasso di sostituzione previdenziale anziché scendere al 67,6% si manterrebbe all’ 80%
Una previdenza complementare che in Italia resta ancora non sufficientemente diffusa. Con un tasso di partecipazione pari al 36,2% dei lavoratori, contro l’ 84% della Germania e il 93% nei Paesi Bassi, un tasso di adesione ai fondi pensione negoziali che non supera il 29,3%. E con i contributi previdenziali che nell’ultimo decennio sono aumentati del 58% ma « in modo meno che proporzionale rispetto alle posizioni in essere » : 81%. A tratteggiare i contorni e l’attuale fisionomia del pianeta delle pensioni integrative è un “position paper” realizzato da “The European House – Ambrosetti” in collaborazione con Fondo Perseo Sirio, il fondo pensione negoziale dei lavoratori della Pa e della sanità che registra oltre 200mila aderenti. Un rapporto in cui si sottolinea che ipotizzando una quota pari all’ 86% di adesioni alle forme complementari, nel 2050 il “tasso di sostituzione” previdenziale anziché scendere al 67,6% si manterrebbe quasi all’ 80% ( 79,7%). Nel paper si sottolinea che, soprattutto per quel che riguarda i fondi negoziali, il mancato vero decollo delle forme integrative in Italia è da ricercare in alcuni « punti aperti strutturali e trasversali ai settori pubblico e privato » che permangono a livello di sistema- Paese. A cominciare dalla prevalenza del Tfr rispetto ai contributi versati da datore di lavoro e lavoratori, dai limitati investimenti in economia reale, che si fermano al 2,8% del patrimonio nel caso dei fondi negoziali, dall’elevato cuneo fiscale e dalle risorse « limitate » che le famiglie sono in grado di versare nella previdenza complementare.
Ma tra le questioni aperte si segnala anche quella della scarsa educazione finanziaria degli italiani, che, sulla base delle ultime indagini internazionali, si classificano all’ultimo posto tra i Paesi europei e al quartultimo tra quelli dell’area Ocse, « solo davanti a Paraguay, Cambogia e Yemen » .
Nel “position paper”, che sarà presentato domani a Roma alla Casa del Jazz in occasione dell’incontro organizzato dal Fondo Perseo Sirio dal titolo “Un percorso che guarda in avanti”, non manca un pacchetto di proposte per favorire le sviluppo delle pensioni integrative e far crescere l’appeal dei fondi negoziali. Che si snoda lungo tre direzioni: ricorso a « facilitazioni per favorire gli investimenti in economia reale dei fondi negoziali » ; revisione dell’attuale normativa per una copertura totale dei dipendenti pubblici; lancio di una « campagna di comunicazione strutturata dell’ecosistema di welfare e capillare sul territorio » . La « messa a terra » di queste iniziative permetterebbe di ottenere tre risultati: un incremento del 37% di iscrizioni ai fondi pensione negoziali; un aumento del 15% del tasso di sostituzione al 2050 per i dipendenti pubblici rispetto a uno scenario con sola previdenza obbligatoria; una crescita del 93% degli investimenti in economia reale.
Il rapporto identifica 4 casi benchmark europei: Francia, Paesi Bassi, Regno Unito e Spagna. Oltralpe nel 2003 è stata creata la pensione supplementare della funzione pubblica, che non è altro che uno schema obbligatorio di previdenza integrativa per i dipendenti della Pa. Nei Paesi Passi e nel Regno Unito le forme complementari sono semi- obbligatorie, mentre la Spagna, che deve fare i conti con una previdenza integrativa ancora « oggi strutturalmente debole » , nel 2022 ha realizzato una riforma per favorire l’adesione al II pilastro.
Nel dossier, in cui si afferma che il Fondo Perseo Sirio « si posiziona come primo fondo negoziale in Italia per crescita del numero di adesioni (+ 268,1%) » , si lascia chiaramente intendere che il nostro Paese è in ritardo e non può perdere altro tempo. Anche perché la componente pensionistica pubblica non potrà sostenere da sola il tasso di sostituzione attuale destinato a « ridursi fino a 13,9 punti percentuali al 2050 ( da 81,5% a 67,6%) » , senza considerare che il nostro sistema previdenziale deve fronteggiare l’inverno demografico con la quota di popolazione in età lavorativa che si ridurrà di 4,4 milioni già nel 2035 e conseguenti ricadute sul finanziamento del welfare. Che è « la prima componente di spesa pubblica ( 58,6% del totale nel 2023) con un ruolo prevalente delle uscite per la previdenza ( circa il 50 del totale) » .