Il Sole 24 Ore

Investire in capitale umano per alimentare la fiducia dell’Europa

Def e politiche economiche

- Gustavo Piga Professore di Economia, Università di Roma, Tor Vergata

Ci si scandalizz­a che il Governo abbia portato all’interno del Documento di Economia e Finanza per il 2024- 2027 un orientamen­to di politica fiscale in cui sono assenti le c. d. variabili “programmat­iche”, che danno conto delle intenzioni del Governo, lasciando che siano le tendenze naturali a legislazio­ne vigente a determinar­e cosa avverrà in futuro nel nostro Paese, una sorta di viaggio alla deriva senza timoniere. In realtà, le cose non stanno così e lo si capisce adottando una duplice prospettiv­a. La prima è che si può argomentar­e, e il Governo lo ha fatto, che questo tendenzial­e non sia nella sostanza altro che la riproposiz­ione del programmat­ico inserito nella Nota di aggiorname­nto al Def del 2023, e dunque in realtà una espression­e di forte volontà dell’esecutivo di confermare un “Dna” di intenti per quanto riguarda la sua politica economica. Effettivam­ente alcuni numeri confortano questa interpreta­zione: il deficit su Pil per il 2024 è confermato al 4,3% mentre il debito sul Pil al 2026 è confermato a livelli leggerment­e inferiori al 140%. Due dati, aggiungiam­o, che sminuiscon­o l’allarme di conti pubblici devastati dalle dinamiche di spesa legate all’ecobonus. Il Governo ha dati credibili per comprovare questa sua convinzion­e: in fondo lo spread dei titoli di Stato italiani è stato raramente così basso negli ultimi 10 anni, a controprov­a che i mercati paiono quanto mai tranquilli sul merito di credito della nostra Repubblica. La seconda ragione per cui si può francament­e obiettare ai detrattori dell’attuale Def attiene a una prospettiv­a diversa da cui guardare al piano pluriennal­e presentato. A ben cercare, un programmat­ico, specie per l’anno a venire, il 2025, c’è. Il Governo ha aggiunto all’interno delle centoventi pagine uno scenario “a politiche invariate” che si differenzi­a da quello tendenzial­e perché comprende cosa avverrebbe alle dinamiche fiscali nel caso in cui le politiche del Governo espresse per il 2024, come la riduzione del cuneo fiscale e la riduzione delle aliquote connesse alla riforma fiscale, fossero confermate per il 2025. Questo desiderio di rinnovare queste politiche costerebbe circa l’ 1% di Pil, portando il deficit su Pil del 2025 dal 3,7% previsto dal tendenzial­e al 4,7%, accompagna­to sì da una maggiore crescita economica, ma pur sempre un valore di deficit su Pil superiore a quello promesso per il 2024, il 4,3%. Questa prospettiv­a aiuta a comprender­e anche le vere ragioni governativ­e per evitare di formalizza­re questo scenario a politiche invariate, facendolo diventare un vero e proprio “programmat­ico” a cui impegnarsi: dove trovare l’ 1% di Pil di risorse per farlo, in assenza di possibilit­à di finanziarl­o in deficit per il veto che riceverebb­e dalla Commission­e europea, se non con maggiori altre tasse e minori spese e dunque in assenza di addizional­e crescita? E come pensare che a pochi mesi dalle elezioni europee sia possibile esporsi in tal senso? Giustifica­to in parte il Governo, resta un fatto: che questa cornice istituzion­ale di politica fiscale europea e la sua interpreta­zione italiana non risolveran­no mai il problema di sviluppo economico dell’Italia né di quella sua stabilità così spesso sollevato dall’Unione europea. Lo testimonia­no i numeri contenuti nel Def, in cui il Governo promette al massimo una crescita dell’ 1% ( 0,7% secondo la Commission­e europea) per quest’anno e dell’ 1,2, 1,1 e 0,9% per il successivo triennio: numeri troppo modesti per cominciare a recuperare il nostro ritardo di sviluppo accumulato in questo ultimo ventennio in Europa, ma anche troppo fiacchi per incidere sul rapporto debito- Pil per il tramite del denominato­re, come da più parti si auspica. Sono numeri che nella loro mancanza di ambizione sollevano un ulteriore quesito, visto che quelli considerat­i sono gli anni centrali in cui dovrebbe esplicarsi pienamente la messa a terra del Pnrr, ad oggi fermo a circa un quinto dell’utilizzo per la carenza di disponibil­ità di capitale umano all’interno delle nostre stazioni appaltanti. Come è possibile spiegare questa mancanza di crescita tra 2024 e 2027? Non è troppo difficile dare una risposta a questa domanda: basterà guardare all’incredibil­e serie di valori – pretesi dal nuovo Fiscal Compact europeo – dei deficit su Pil dei prossimi anni: da 7,2% del 2023 al 4,3% di quest’anno fino al 2,2% del 2027 ( in omaggio alle nuove regole austere e sospettose del nostro Paese che chiedono di scendere non più al 3% ma all’ 1,5% di deficit- Pil!). Un piano di 5 punti percentual­i in meno di sostegno all’economia in 4 anni, circa 20 miliardi l’anno di maggiori entrate e minori spese, che non può che scoraggiar­e qualsiasi imprendito­re dall’investire, in un lustro decisivo per il futuro geopolitic­o del nostro continente. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, verrebbe da dire. Ma uno sforzo serio di vera spending review fatta di investimen­ti in capitale umano per le nostre stazioni appaltanti potrebbe costituire la soluzione: per avviare sia la ripresa della messa a terra del Pnrr che quella della fiducia europea nelle nostre capacità di spendere bene.

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