Espansionismo israeliano senza tregua
L’autonomia palestinese si è ridotta a un arcipelago di gabbie sotto rigido controllo
A New York, a 5.687 chilometri di distanza da Ramallah, capitale di un Paese mai nato, il Consiglio di sicurezza Onu vota se riconoscere la Palestina come 194° membro delle Nazioni Unite. Nel 2012 era già stato ammesso come osservatore. Se nel voto passasse l’ammissione da membro formale, sarebbe come riconoscere l’esistenza di uno Stato palestinese.
Decenni di diplomazia e conflitti verrebbero finalmente cancellati in pochi minuti. Ma non sarà così. La burocrazia Onu stabilisce che per ammettere un nuovo Paese sono necessari il sì dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza ( Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) e dei 2/ 3 dell’Assemblea generale. È quasi certo che una volta di più gli Stati Uniti si opporranno.
Ma non è solo colpa della incoerente diplomazia di Joe Biden se ancora non esiste uno Stato palestinese. La cosa più semplice di questo complicato conflitto è che esiste un occupante e un occupato. Ma se quest’ultimo lo è da così tanto tempo, qualche responsabilità quantomeno storica la deve avere.
Abba Eban, ministro degli Esteri di Golda Meir, sosteneva che i palestinesi non perdono occasione di perdere occasioni. Come tutte le frasi famose, anche questa è una mezza verità: dall’alto della loro supremazia militare, economica, tecnologica e diplomatica, gli israeliani non hanno offerto molte opportunità ai palestinesi.
La prima, avanzata dall’Onu, fu il piano di spartizione del 1947 che la comunità ebraica di Palestina accettò e gli arabi respinsero. In realtà a dire no non furono tanto i palestinesi quanto i Paesi arabi che dominavano la causa palestinese.
La seconda possibilità fu dopo la guerra dei Sei giorni del giugno 1967, quando Israele occupò Gerusalemme Est palestinese, la Cisgiordania e Gaza. Il governo offrì la restituzione dei territori conquistati in cambio della pace. La risposta al vertice della Lega araba di Khartoum, a settembre, furono tre no: no al riconoscimento d’Israele, al negoziato e alla pace. Lo decise l’egiziano Gamal Nasser che a quel tempo era il leader del mondo arabo.
I palestinesi incominciarono a diventare padroni del loro destino l’anno successivo, quando i combattenti del partito Fatah di Yasser Arafat, quasi vinsero una battaglia contro gli israeliani a Karameh, nella valle del Giordano. L’impressione fu così grande nel mondo arabo che Fatah divenne la forza dominante tra i palestinesi e Arafat il capo dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, fino ad allora strumento dell’Egitto.
Popolo di esuli, costretto a vivere nei campi profughi, in quegli anni i palestinesi destabilizzarono prima la Giordania poi il Libano. La lotta per la liberazione nazionale contro Israele non era che uno scontro fra terrorismo e operazioni di antiterrorismo. I pochi palestinesi che proponevano una soluzione politica venivano assassinati dagli estremisti della loro parte o dagli agenti israeliani; i pochi israeliani che cercavano di avere contatti con i palestinesi venivano arrestati dal loro governo. Solo nel 1992, quando Yitzhak Rabin vinse le elezioni contro Yitzhak Shamir ( che da giovane aveva appartenuto a un’organizzazione terroristica ebraica), non fu più un reato incontrare rappresentanti dell’Olp.
La più grande occasione che avrebbe potuto portare alla nascita di uno Stato palestinese fu la trattativa di Oslo. In Norvegia palestinesi e israeliani si erano incontrati segretamente, scoprendo di avere entrambi il desiderio di vivere in pace. Quando la cosa si fece seria, il negoziato fu affidato agli Stati Uniti. A Washington nel 1993 davanti a Bill Clinton, Arafat e Mahmud Abbas da una parte e Rabin e Shimon Peres dall’altra decisero di avviare il negoziato.
Fra alti e bassi durò fino al settembre 2000, dopo un vertice fallito a Camp David, quando scoppiò la seconda Intifada. Gli israeliani accusarono di tutto
Arafat che da un lato trattava e dall’altro non impediva ad Hamas di compiere attentati devastanti. Non avevano torto: incapace di fare il salto di qualità da capo guerrigliero a statista, il leader palestinese si comportò con ambiguità. Ma una volta di più, anche questa era solo una parte della verità.
L’altra è che nello scambio delle lettere fra i due leader, a Washington, Arafat riconosceva il diritto d’Israele di esistere; Rabin solo il diritto dell’Olp di rappresentare il popolo palestinese, senza concedere l’indipendenza nazionale. Nei sette anni della trattativa di Oslo, nonostante un negoziato di pace in corso, gli israeliani avevano raddoppiato il numero delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati.
Israele non ha quasi mai smesso di costruire colonie: in questi giorni ne ha approvate di nuove. Nella macchinosa amministrazione dei Territori che ha imposto ( area A, B e C), l’autonomia palestinese è stata ridotta a un arcipelago di gabbie sotto il controllo asfissiante israeliano. « Avete trasformato la Cisgiordania in un emmental » , constatò Saeb Erekat, il negoziatore capo palestinese. « Voi vi siete presi il formaggio, a noi sono rimasti i buchi » . Da allora non è cambiato nulla. Sono solo aumentate la repressione israeliana e la disperazione palestinese.
Dal fallimento dei negoziati di Oslo sono aumentate la repressione israeliana e la disperazione palestinese