Petrolio freddo sui rischi geopolitici Ignorate le sanzioni al Venezuela
Dopo i missili su Israele il prezzo del barile non ha mai smesso di scendere Minacce iraniane e stretta Usa su Caracas, ma il Brent tocca un minimo di 86 dollari
Il mercato del petrolio sembra aver messo da parte il rischio geopolitico, per concentrarsi su indizi di rallentamento della domanda e su segnali tecnici intelligibili soprattutto ai fondi algoritmici. Così le quotazioni del barile continuano a indebolirsi. La discesa è proseguita anche ieri, nonostante il nuovo giro di vite sulle sanzioni contro il Venezuela, con cui gli Stati Uniti hanno interrotto la tregua che per sei mesi ha consentito al Paese di esportare greggio senza limitazioni. E nonostante l’Iran abbia rispolverato la minaccia nucleare, in caso di attacco diretto da parte di Israele: eventualità che le potenze internazionali cercano di scongiurare, ma che lo Stato ebraico non esclude.
La situazione sullo scacchiere internazionale non si può certo dire distesa. Eppure, il petrolio non ha chiuso in rialzo una sola seduta da quando – sabato scorso – Teheran ha lanciato oltre 300 droni e missili verso Israele. Il Brent, scivolato addirittura di oltre il 3% mercoledì, ieri ha perso quota ulteriormente fino a toccare un minimo da tre settimane ( 86 dollari al barile), salvo poi contenere le perdite per concludere intorno a 87 dollari.
La speranza evidentemente è l’ultima a morire. E molti analisti continuano a dichiararsi convinti che in Medio Oriente non ci sarà un’ulteriore, grave escalation militare, né si verificheranno scenari capaci in qualche modo di compromettere le forniture di idrocarburi. In assenza di ulteriori tensioni, per Goldman Sachs il valore del greggio potrebbe presto scendere di altri 5- 10 dollari al barile.
Diversi esperti confidano anche nell’ampia capacità produttiva di riserva, che potrebbe venire in soccorso in caso di interruzioni dell’offerta: l’Opec in particolare oggi ha una “spare capacity” di ben 6 milioni di barili al giorno e se volesse potrebbe attenuare i tagli in qualsiasi momento. A giugno in ogni caso, salvo nuove proroghe, scadranno parte degli impegni assunti dal gruppo: i tagli extra di Arabia Saudita e altri Paesi, che ammontano a 2,2 mbg.
Persino l’ipotesi di sanzioni più rigide contro l’Iran non sembra sollevare inquietudini, a giudicare dalle reazioni del mercato, anche se la Repubblica islamica è stata cruciale per garantire adeguate forniture negli ultimi mesi: la sua produzione di greggio in un anno è cresciuta di oltre 600mila barili al giorno e l’export è salito a 1,6 milioni di bg, sui massimi dal 2018 ( si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
A maggior ragione non fa paura il giro di vite degli Usa contro il Venezuela, che dovrebbe avere un impatto limitato sull’offerta, quanto meno in termini di volumi. Il quadro è un po’ diverso se si guarda alla qualità dei barili: greggio pesante, “parente” ( anche se non esattamente fungibile) di quello che il Messico – in gravi difficoltà produttive – proprio in questo periodo sta ritirando dal mercato, fa notare Viktor Katona, analista di Kpler.
Washington comunque non ha esercitato la massima severità. Ha negato il rinnovo della Licenza 44, che aveva dato mano libera sull’export di petrolio venezuelano, imponendo di concludere qualsiasi transazione commerciale entro il 31 maggio. Ma le licenze speciali assegnate ad alcune società straniere che operano nel Paese non sono decadute e anzi il Dipartimento del Tesoro si dice pronto a concederne altre, valutando « caso per caso » . Non perde quindi nessun diritto Chevron, oggi il maggior produttore in Venezuela con oltre 150mila bg ( per cui non paga tasse né royalties), che è autorizzata ad esportare soltanto negli Usa. Di un permesso ad hoc godono dal 2022 anche Eni e la spagnola Repsol, cui Washington ha concesso di recuperare “in natura”, sotto forma di idrocarburi esportabili in Europa, gli enormi crediti con la compagnia locale Pdvsa. Uno scudo dalle sanzioni protegge inoltre i big dei servizi petroliferi Halliburton, SLB, Baker Hughes e Weatherford: scadrà il prossimo 16 maggio, ma è probabile che venga prorogato.
La tregua sull’export ha coinciso con una ripresa anche della produzione petrolifera in Venezuela, che in marzo è salita a 870mila bg in marzo dai 760mila bg di ottobre, scrive S& P Global. Una marcia indietro a questo punto è possibile, ma secondo Francisco Monaldi, esperto della Rice University, sarà limitata e non dipenderà dal venir meno degli investimenti, quanto piuttosto dalla capacità o meno di Caracas di continuare ad importare diluenti, indispensabili per il suo greggio denso e pesante, simile al bitume.