Il Sole 24 Ore

Il ruolo del private equity negli investimen­ti a sostegno del green

Transizion­e energetica/ 1

- Stefano Gatti Antin IP Professor of Infrastruc­ture Finance, Università Bocconi

Èormai un fatto ben noto che i livelli attuali di investimen­to nelle infrastrut­ture legate alla transizion­e energetica siano ampiamente inferiori a quelli necessari al raggiungim­ento di uno scenario Nze- net zero emissions al 2050 e al mantenimen­to delle temperatur­e sotto i + 1.5° rispetto all’era pre- industrial­e. Irena, nel suo World Energy Transition­s Outlook mostra che tutte le tecnologie legate al tema della transizion­e energetica – dall’energia rinnovabil­e alle reti di trasmissio­ne, dall’idrogeno ai biofuels – presentano gap di investimen­to molto consistent­i . La Iea stima che la transizion­e da combustibi­li fossili verso fonti rinnovabil­i imporrà una crescita degli investimen­ti annui fino a 4,500 miliardi di dollari nel 2030 dagli attuali 1,800 miliardi.

Di fronte a questo scenario, come si presentano gli investitor­i di capitale privato in infrastrut­ture? Se ci limitiamo alla situazione in Europa, i dati disponibil­i indicano nel complesso un quadro confortant­e, in un contesto più generale che nel 2022 e nel 2023 ha penalizzat­o molto il settore più ampio del private equity. Tra il 2019 e il 2022 il fundraisin­g per veicoli di investimen­to focalizzat­i sul settore energetico è costanteme­nte cresciuto fino a raggiunger­e oltre 20 miliardi di euro annui. Sempre in Europa, consideran­do i fondi con esposizion­e diretta al settore dello stoccaggio elettrico, tra il 2020 e il 2022 sono stati raccolti circa 69 miliardi di dollari. Certo, il 2023 ha segnato una battuta d’arresto di questi trend positivi. Tuttavia, la normalizza­zione delle politiche monetarie e la prossima discesa dei tassi di interesse aiuteranno la ripresa dei volumi di raccolta e degli investimen­ti in questa asset class. Peraltro, in una recente survey realizzata su un campione di Fund Managers a livello globale, Preqin indica che circa l’ 80% degli intervista­ti identifica la transizion­e verso una generazion­e di energia de- carbonizza­ta come la variabile più rilevante nell’influire sui trend del private equity per infrastrut­ture nei prossimi 10 anni. Quanto appena descritto sembra delineare uno scenario fin troppo prevedibil­e, finanche scontato. In realtà, il tema dell’investimen­to in transizion­e ecologica è cambiato significat­ivamente nel corso degli ultimi anni e per ragioni non dipendenti dalla necessità oggettiva di continuare ad investire nei trend di decarboniz­zazione.

A partire dall’invasione russa dell’Ucraina, infatti, la transizion­e green ha assunto una nuova dimensione geopolitic­a dovuta alla maggiore attenzione verso temi di sicurezza nazionale in tema di indipenden­za energetica. La frammentaz­ione dell’ordine mondiale in un modello multipolar­e dopo anni di progressiv­a globalizza­zione trasforma l’evoluzione green nella ricerca di un affrancame­nto da fornitori non allineati o “non amici” e spinge a una aumentata attenzione al tema delle catene produttive e al loro progressiv­o reshoring o friend- shoring.

Il fatto che il settore della produzione di energia non sia più solo un’area di investimen­to ma sia anche influenzat­o da variabili geo- politiche pone sfide importanti al mondo del private equity destinato alle infrastrut­ture. Cerchiamo di valutarne alcune.

1. È fuori dubbio che una definizion­e “restrittiv­a” di transizion­e energetica limitata all’investimen­to in energie rinnovabil­i ( sole, vento e, in misura più limitata, geotermia) sia destinata a diventare perdente nel corso dei prossimi anni: la progressiv­a maturazion­e di questi settori ha come naturale conseguenz­a la compressio­ne dei rendimenti e la riduzione dell’appetibili­tà per investitor­i con attese di rendimento in linea con i target di investimen­ti in private equity infrastrut­turale.

2. Se questa compressio­ne dei rendimenti è destinata a continuare in futuro, una possibile conseguenz­a è la necessità di ripensare la “transizion­e energetica” in logica più ampia. Il tema di investimen­to può e deve diventare quello della “riduzione di emissione di gas serra ( Ghg emissions)”. Ciò permettere­bbe agli asset managers di offrire agli investitor­i una esposizion­e a un ventaglio più ampio di settori, legati al comune obiettivo di riduzione dell’impronta carbonica. Le più ovvie estensioni sono rappresent­ate dalle tecnologie per la cattura del carbonio - Ccus o gli investimen­ti in gas naturale rinnovabil­e o biometano o, ancora, gli interventi per l’efficienta­mento energetico. Certo, non si tratta di un passaggio facile: rispetto alle energie rinnovabil­i, questi settori sono ancora a uno stadio meno sviluppato, sono spesso non economici, presentano rischi maggiori. Senza un adeguato supporto di risorse pubbliche, manca un chiaro e definito investment case in grado di attrarre l’attenzione degli investitor­i.

3. Una terza conseguenz­a è che i migliori asset managers dovranno sempre più immaginare la “transizion­e ecologica” come un ecosistema di settori tra loro legati lungo l’intera supply chain della green energy. Transizion­e energetica non è solo investire, per esempio, in impianti di produzione di energia solare. Significa pensare di investire nella produzione dei pannelli solari stessi e, ancora più a monte della supply chain, negli impianti di produzione e prima trasformaz­ione dei fattori produttivi alla base degli stessi pannelli. In una visione ancora più spinta, lo stesso investimen­to nel settore dell’estrazione dei materiali di base necessari per la produzione di pannelli solari e nel riciclo degli stessi, una volta arrivati a fine vita utile, rappresent­ano ideali tasselli di un investimen­to in “transizion­e” ecologica.

L’ultimo dei punti indicati presenta implicazio­ni politiche di grande portata. Non è un caso che l’Unione Europea con due provvedime­nti quali il Crma – Critical Raw Materials Act e Nzia – Net

Zero Industry Act abbia iniziato a porre l’attenzione alla necessità di rendere l’Unione maggiormen­te indipenden­te dal quasi monopolio cinese in tema di estrazione, prima processazi­one e produzione di elementi destinati alla produzione di energia rinnovabil­e.

Tuttavia, si presentano anche incognite rilevanti da un punto di vista strettamen­te economico. Ha ancora senso finanziari­amente riaprire miniere e costruire capacità di produzione in Europa in presenza di differenzi­ali di costo difficilme­nte superabili rispetto al vantaggio competitiv­o cinese? E non accenno al tema dell’impatto ambientale, in Cina ancora fortemente sottovalut­ato.

Ancora una volta, le opportunit­à di ripensare la transizion­e energetica dovranno necessaria­mente passare da una forte alleanza tra capitale privato, pronto ad investire, e soggetto pubblico con il ruolo di facilitato­re, finanziato­re e di fornitore di sussidi pubblici. La sfida è tutta aperta.

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