Il ruolo del private equity negli investimenti a sostegno del green
Transizione energetica/ 1
Èormai un fatto ben noto che i livelli attuali di investimento nelle infrastrutture legate alla transizione energetica siano ampiamente inferiori a quelli necessari al raggiungimento di uno scenario Nze- net zero emissions al 2050 e al mantenimento delle temperature sotto i + 1.5° rispetto all’era pre- industriale. Irena, nel suo World Energy Transitions Outlook mostra che tutte le tecnologie legate al tema della transizione energetica – dall’energia rinnovabile alle reti di trasmissione, dall’idrogeno ai biofuels – presentano gap di investimento molto consistenti . La Iea stima che la transizione da combustibili fossili verso fonti rinnovabili imporrà una crescita degli investimenti annui fino a 4,500 miliardi di dollari nel 2030 dagli attuali 1,800 miliardi.
Di fronte a questo scenario, come si presentano gli investitori di capitale privato in infrastrutture? Se ci limitiamo alla situazione in Europa, i dati disponibili indicano nel complesso un quadro confortante, in un contesto più generale che nel 2022 e nel 2023 ha penalizzato molto il settore più ampio del private equity. Tra il 2019 e il 2022 il fundraising per veicoli di investimento focalizzati sul settore energetico è costantemente cresciuto fino a raggiungere oltre 20 miliardi di euro annui. Sempre in Europa, considerando i fondi con esposizione diretta al settore dello stoccaggio elettrico, tra il 2020 e il 2022 sono stati raccolti circa 69 miliardi di dollari. Certo, il 2023 ha segnato una battuta d’arresto di questi trend positivi. Tuttavia, la normalizzazione delle politiche monetarie e la prossima discesa dei tassi di interesse aiuteranno la ripresa dei volumi di raccolta e degli investimenti in questa asset class. Peraltro, in una recente survey realizzata su un campione di Fund Managers a livello globale, Preqin indica che circa l’ 80% degli intervistati identifica la transizione verso una generazione di energia de- carbonizzata come la variabile più rilevante nell’influire sui trend del private equity per infrastrutture nei prossimi 10 anni. Quanto appena descritto sembra delineare uno scenario fin troppo prevedibile, finanche scontato. In realtà, il tema dell’investimento in transizione ecologica è cambiato significativamente nel corso degli ultimi anni e per ragioni non dipendenti dalla necessità oggettiva di continuare ad investire nei trend di decarbonizzazione.
A partire dall’invasione russa dell’Ucraina, infatti, la transizione green ha assunto una nuova dimensione geopolitica dovuta alla maggiore attenzione verso temi di sicurezza nazionale in tema di indipendenza energetica. La frammentazione dell’ordine mondiale in un modello multipolare dopo anni di progressiva globalizzazione trasforma l’evoluzione green nella ricerca di un affrancamento da fornitori non allineati o “non amici” e spinge a una aumentata attenzione al tema delle catene produttive e al loro progressivo reshoring o friend- shoring.
Il fatto che il settore della produzione di energia non sia più solo un’area di investimento ma sia anche influenzato da variabili geo- politiche pone sfide importanti al mondo del private equity destinato alle infrastrutture. Cerchiamo di valutarne alcune.
1. È fuori dubbio che una definizione “restrittiva” di transizione energetica limitata all’investimento in energie rinnovabili ( sole, vento e, in misura più limitata, geotermia) sia destinata a diventare perdente nel corso dei prossimi anni: la progressiva maturazione di questi settori ha come naturale conseguenza la compressione dei rendimenti e la riduzione dell’appetibilità per investitori con attese di rendimento in linea con i target di investimenti in private equity infrastrutturale.
2. Se questa compressione dei rendimenti è destinata a continuare in futuro, una possibile conseguenza è la necessità di ripensare la “transizione energetica” in logica più ampia. Il tema di investimento può e deve diventare quello della “riduzione di emissione di gas serra ( Ghg emissions)”. Ciò permetterebbe agli asset managers di offrire agli investitori una esposizione a un ventaglio più ampio di settori, legati al comune obiettivo di riduzione dell’impronta carbonica. Le più ovvie estensioni sono rappresentate dalle tecnologie per la cattura del carbonio - Ccus o gli investimenti in gas naturale rinnovabile o biometano o, ancora, gli interventi per l’efficientamento energetico. Certo, non si tratta di un passaggio facile: rispetto alle energie rinnovabili, questi settori sono ancora a uno stadio meno sviluppato, sono spesso non economici, presentano rischi maggiori. Senza un adeguato supporto di risorse pubbliche, manca un chiaro e definito investment case in grado di attrarre l’attenzione degli investitori.
3. Una terza conseguenza è che i migliori asset managers dovranno sempre più immaginare la “transizione ecologica” come un ecosistema di settori tra loro legati lungo l’intera supply chain della green energy. Transizione energetica non è solo investire, per esempio, in impianti di produzione di energia solare. Significa pensare di investire nella produzione dei pannelli solari stessi e, ancora più a monte della supply chain, negli impianti di produzione e prima trasformazione dei fattori produttivi alla base degli stessi pannelli. In una visione ancora più spinta, lo stesso investimento nel settore dell’estrazione dei materiali di base necessari per la produzione di pannelli solari e nel riciclo degli stessi, una volta arrivati a fine vita utile, rappresentano ideali tasselli di un investimento in “transizione” ecologica.
L’ultimo dei punti indicati presenta implicazioni politiche di grande portata. Non è un caso che l’Unione Europea con due provvedimenti quali il Crma – Critical Raw Materials Act e Nzia – Net
Zero Industry Act abbia iniziato a porre l’attenzione alla necessità di rendere l’Unione maggiormente indipendente dal quasi monopolio cinese in tema di estrazione, prima processazione e produzione di elementi destinati alla produzione di energia rinnovabile.
Tuttavia, si presentano anche incognite rilevanti da un punto di vista strettamente economico. Ha ancora senso finanziariamente riaprire miniere e costruire capacità di produzione in Europa in presenza di differenziali di costo difficilmente superabili rispetto al vantaggio competitivo cinese? E non accenno al tema dell’impatto ambientale, in Cina ancora fortemente sottovalutato.
Ancora una volta, le opportunità di ripensare la transizione energetica dovranno necessariamente passare da una forte alleanza tra capitale privato, pronto ad investire, e soggetto pubblico con il ruolo di facilitatore, finanziatore e di fornitore di sussidi pubblici. La sfida è tutta aperta.