LA SCELTA FELICE DI PUNTARE SUI CORPI INTERMEDI
Nel 1994, in una situazione di crescente difficoltà finanziaria, il Governo, con il Dlgs 509, avviava un complesso processo di privatizzazione delle casse previdenziali per concedere ad alcune categorie di liberi professionisti, tra cui i dottori commercialisti, la libertà di organizzarsi in Casse previdenziali per assicurare un futuro previdenziale agli iscritti, a patto che queste non gravassero più sul bilancio pubblico.
In altri termini, alla maggiore autonomia delle casse doveva corrispondere una loro maggiore responsabilità, tanto più che già all’epoca cominciavano a intravedersi i primi segnali dell’inverno demografico che oggi minaccia il futuro previdenziale di tutti noi.
Una sfida difficile che per essere vinta richiedeva di valorizzare al meglio il combinato disposto degli articoli 2 e 38 della Costituzione, perché per avere successo postulava l’affidamento a corpi intermedi, dalla natura squisitamente privatistica, di una funzione di carattere eminentemente pubblicistico come quella di assicurare il futuro previdenziale di un’intera categoria.
Da allora molta acqua è passata sotto ai ponti e, 30 anni anni di distanza, è possibile trarre un primo bilancio di questo rilevante esperimento di interazione tra pubblico e privato, ad esempio prendendo a riferimento i risultati di gestione della Cassa dei dottori commercialisti.
Basti al riguardo osservare che la Cassa dei dottori commercialisti, se nel 1993 era in grado di assicurare, senza il sostegno del bilancio statale, la sostenibilità previdenziale solo per i successivi 15 anni, nel tempo, nonostante il crollo delle nascite grazie ad alcune lungimiranti scelte ( tra cui l’applicazione di un contributo di solidarietà sugli scaglioni di quote di pensione calcolate con il metodo retributivo nonché il riconoscimento sui montanti contributivi individuali di una quota parte della contribuzione integrativa versata dal singolo iscritto), è oggi in grado di assicurare la sicurezza di una prestazione previdenziale per i prossimi 50 anni.
Si tratta di un risultato importante, oltre che rassicurante, soprattutto in un Paese che vanta il terzo debito pubblico del mondo e che proprio per tale motivo ha continuato a mostrarsi restio a riconoscere alle Casse l’autonomia di cui parlava il Dlgs 509 del 1994.
Basti considerare che nel corso degli anni l’attività delle Casse previdenziali da un lato è stata sottoposta a nuovi vincoli – dall’imposizione della spending review all’inclusione nell’elenco delle Pubbliche amministrazioni tenuto dall’Istat, sino all’intensificazione dei controlli da parte del ministero del Lavoro, della Corte dei conti, dell’Anac e dell’AgID – e dall’altro ha dovuto resistere alla crescente contestazione delle scelte compiute per rafforzare la sostenibilità di lungo periodo dei propri bilanci. Ci si riferisce in particolare agli interventi legislativi volti ad estendere anche alle Casse previdenziali l’applicazione delle procedure di definizione agevolata dei debiti contributivi ( rottamazione, saldo e stralcio, microcredito) nonché alle resistenze, incontrate principalmente in sede giurisdizionale, in ordine alla legittimità del principio del pro rata e del contributo di solidarietà.
Se non che, nonostante queste resistenze, i bilanci presentati oggi dimostrano che quantomeno la Cassa dei dottori commercialisti ha fatto buon uso della propria autonomia dimostrando che la funzione previdenziale può essere assolta anche dai corpi intermedi e non solo dallo Stato, proprio come avevano immaginato i Costituenti.