L’AUTOREGOLAMENTAZIONE HA SUBITO FATTO I CONTI CON L’EREDITà DEL DEBITO LATENTE
Le Casse di previdenza furono privatizzate nel 1995 ma, da subito, le previsioni normative collegate alla privatizzazione si rivelarono inadeguate a garantire la sostenibilità del debito previdenziale latente. Occorreva porvi rimedio, agendo in autonomia e sottolineando che non si intendeva ripararsi sotto l’ala pubblica.
Infatti in quel periodo le libere professioni, e le relative Casse, furono oggetto di interferenze dirette e indirette, da parte di esponenti politici e sindacali, ai quali occorreva contrapporre una solida capacità di reazione basata, soprattutto, su un diverso approccio culturaleprevidenziale, teso a dimostrare l’autosufficienza delle Casse, cioè la loro competenza nell’autoregolamentarsi grazie alla conquistata autonomia.
Ciò ha portato allo sviluppo di una nuova specifica cultura gestionale, che ha elaborato misure idonee a garantire il futuro previdenziale degli iscritti.
Pertanto il consiglio di amministrazione della Cassa dottori commercialisti, già a partire dalla relazione sulla gestione del 1996, indicava la strada da seguire, auspicando l’evoluzione del sistema previdenziale verso i sistemi « che governano i regimi a capitalizzazione, sia per ragioni di sicurezza che per un corretto rapporto sinallagmatico tra contributi e prestazioni » .
A tal fine furono attivate valutazioni attuariali proiettate in un arco temporale di 40 anni, ben superiore ai 15 allora previsti dalle norme, indirizzate, oltre che a una verifica dell’equilibrio tecnico finanziario, a fornire utili indicazioni sull’entità delle aliquote contributive soggettive ed integrative da adottare, nella prospettiva del passaggio ad un sistema a « capitalizzazione individuale » con cristallizzazione delle prestazioni maturate.
Ma per la loro concreta attuazione era necessario tenere conto della situazione politica difficile nella quale, a più riprese, fu posta in discussione la stessa sopravvivenza degli Ordini, cioè del pilastro su cui si fonda la previdenza.
In quegli anni la gestione delle Casse era condizionata da una serie di iniziative esterne tenedenti a limitarne l’operatività, tra le quali: il cosiddetto “prestito forzoso”, con il quale si obbligarono le Casse a “investire” parte delle entrate contributive presso la Tesoreria centrale dello Stato; le proposte di modifiche alla Finanziaria 1993, per fortuna mai attuate, miranti a trasferire il patrimonio immobiliare delle Casse in un fondo comune, e le istruzioni dettate dal ministero dell’Economia, che classificò come rientrante nell’attività tipica professionale del dottore commercialista la sola attività di sindaco e revisore e non anche quella di amministratore di società.
Anche alcuni esponenti sindacali si dimostrarono preoccupati dall’unificazione dei regimi previdenziali: in particolare, dichiarando pubblicamente che « non è immaginabile che ognuno si faccia la propria tutela e poi chieda la solidarietà degli altri quando le risorse vengono meno. Se vogliamo riformare le professioni dobbiamo discutere anche questo tema » .
Gli esempi riportati rendono chiari gli obbiettivi che si è inteso perseguire con la privatizzazione: le Casse, solo pochi anni addietro, erano costrette a comportamenti in parte antieconomici, a investire in immobili a uso abitativo, a rinunciare obbligatoriamente a impieghi finanziari alternativi, a sottostare a vincoli burocratici che impedivano di variare i propri investimenti.
Con la privatizzazione i risultati non tardarono: già nel 1998 i soli proventi complessivi della gestione immobiliare e mobiliare coprirono, ampiamente, le erogazioni previdenziali. E oggi i bilanci attuariali della Cassa dottori commercialisti dimostrano che il percorso intrapreso era quello vincente.