Jobs Act, dal referendum impatto nullo sul mercato
Dal 2015 aumentati gli occupati e, in particolare, i contratti stabili
A quasi 10 anni di distanza e, con un mercato del lavoro diverso, e in trasformazione, è un referendum della Cgil, appoggiato da una parte del Pd e del M5S, a rimettere in discussione l’ultima riforma del lavoro, il cosiddetto Jobs Act, realizzata dall’allora governo Renzi.
Per i promotori dei quesiti referendari, quella riforma, con l’introduzione, per gli assunti post 7 marzo 20215, in caso di licenziamenti illegittimi, delle tutele monetarie crescenti, sostitutive della tutela reintegratoria, avrebbe aumentato la precarietà. Non ci sono tuttavia dati ufficiali che confermano questa posizione; anzi le rilevazioni Inps e Istat dicono il contrario. Secondo le serie storiche dell’Istat, a marzo 2015 il numero di occupati in Italia era di 22.014.000, a marzo 2024 siamo saliti a 23.849.000. Gli occupati permanenti, vale a dire gli assunti a tempo indeterminato, nello stesso periodo considerato, sono passati da 14.316.000 a quasi 16 milioni ( 15.966.000 per l’esattezza). L’occupazione a termine, a marzo 2024, è a quota 2.828.000, senza particolari boom, e in linea con le
Senza Jobs Act non tornerebbe l’articolo 18, ma la legge del 2012, meno favorevole sugli indennizzi
medie internazionali. Anche il numero di licenziamenti, come emerge dalle statistiche Inps, non è affatto aumentato; anzi si è ridotto di molto il contenzioso, uno dei freni principali agli investimenti ( legato all’incertezza giuridica).
Anche dal punto di vista squisitamente tecnico, i quesiti referendari della Cgil, se ammessi al voto e poi effettivamente approvati, non produrrebbero effetti significativi. « Praticamente nulli » , sottolineano i giuslavoristi. Intanto perché, dopo le modifiche del 2018, operate dalle sentenze della Corte costituzionale, il Jobs act non è più lo stesso, è stato modificato, riducendone la portata.
Eppoi, se pure fosse cancellato, come chiede chi propone il referendum, non si tornerebbe l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970. « Si tornerebbe alla legge Monti- Fornero del 2012 - spiega Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro all’università Bocconi di Milano -, che aveva già scalfito la tutela reintegratoria, moltiplicando le fattispecie di licenziamento e diversificando le sanzioni, creando però solo incertezze e contenzioso. Per i vecchi assunti, prima del 7 marzo 2015, è comunque questa la normativa di riferimento in materia di licenziamento, che è addirittura meno favorevole in caso di indennizzi rispetto al Jobs act. Peraltro, le sentenze della Corte costituzionale hanno respinto i rilievi di incostituzionalità sul passaggio dalla reintegra alle sanzioni monetarie crescenti » .
Insomma, si rischia di tornare a dispute tra Guelfi e Ghibellli, e a una stagione di polemiche che non aiutano a risolvere gli attuali problemi di imprese e lavoratori. Parliamo certo di precarietà, di salari, di mismatch, di rivoluzioni tecnologiche e green, di chi è ai margini. Tutti temi serissimi su cui il ritorno o meno dell’articolo 18 rischia solo di distogliere l’attenzione.