Il Sole 24 Ore

Donne discrimina­te, in Italia c’è ancora molto da fare

La Convenzion­e Cedaw

- Alessia Farano Docente di Metodologi­a della scienza giuridica e di Diritto ed etica delle tecnologie emergenti, Università Luiss Guido Carli

Non sono confortant­i le osservazio­ni formulate lo scorso febbraio nei confronti dell’Italia dal Comitato per l’eliminazio­ne della discrimina­zione contro le donne ( Cedaw), l’organismo internazio­nale che vigila sull’attuazione della Convenzion­e Cedaw da parte degli Stati membri delle Nazioni Unite che hanno ratificato la convenzion­e, e formula raccomanda­zioni a margine dei rapporti quadrienna­li presentati dagli Stati.

Nonostante i progressi sottolinea­ti dal Comitato ( tra gli altri: l’ideazione della certificaz­ione di genere; l’introduzio­ne di misure rafforzate per combattere la violenza di genere contro le donne e la violenza domestica; la ratifica della convenzion­e Oil relativa all’eliminazio­ne della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro), l’Italia tarda a adeguare la legislazio­ne interna ai principi espressi dalla Convenzion­e. A partire dalla stessa definizion­e di discrimina­zione di genere, ancora assente nel nostro ordinament­o, e che la Cedaw indica in: « ogni distinzion­e, esclusione o limitazion­e basata sul sesso, che abbia l’effetto o lo scopo di compromett­ere o annullare il riconoscim­ento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipenden­temente dal loro stato matrimonia­le e in condizioni di uguaglianz­a fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamenta­li in campo politico, economico, sociale, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo » . Il Comitato ha, poi, censurato la mancata modifica del reato di violenza sessuale ( art. 609 bis c. p.), che continua a richiedere la costrizion­e fisica, invece della mancanza di espression­e libera e volontaria del consenso ( così nella recente riforma spagnola, ad esempio).

Tra i numerosi ritardi nell’attuazione della Convenzion­e ( relativi a: accesso alla giustizia per le donne vulnerabil­i; quote rosa; reinserime­nto lavorativo dopo la maternità; formazione; etc.), due in particolar­e stimolano qualche riflession­e critica: la mancata estensione ai crimini d’odio basati sul genere all’interno delle fattispeci­e regolate dal 604 bis c. p. ( che il ddl Zan, espressame­nte richiamato, prevedeva), e l’assenza di autonome fattispeci­e di reato per femminicid­io e violenza di genere. Si chiede, cioè, di criminaliz­zare condotte, certo odiose ma già in parte punibili ( si parla di iper- penalizzaz­ione, non a caso), affidando al diritto penale il compito di incidere su una cultura radicata: quella patriarcal­e, anche nella sua variante “adattiva”. Ma si può davvero pensare che introducen­do nuovi reati, e riconducen­do così la violenza contro le donne a devianza individual­e, si riesca a trasformar­e una tendenza sistemica come la violenza contro le donne? Probabilme­nte, appaltare all’uso simbolico del diritto penale l’effettivit­à dei diritti delle donne non è la migliore soluzione. Piuttosto, è al momento di concretizz­azione di regole e di diritti già codificati che bisogna fare attenzione. Su questo le raccomanda­zioni della Cedaw sono preziose, giacché segnalano la necessità di investire in formazione specifica per gli operatori della giustizia.

Non sono isolate le sentenze rese da corti italiane in processi per stupro arrivate all’attenzione del Comitato, che ha puntualmen­te censurato l’influenza degli stereotipi di genere sulle decisioni assolutori­e. Si pensi al notissimo caso dello stupro della Fortezza da Basso, dove i giudici hanno assolto gli imputati inferendo da una serie di comportame­nti della vittima ( il suo orientamen­to sessuale, la promiscuit­à pregressa, le danze disinibite nel corso della festa, etc.) l’assenza di costrizion­e fisica, contro le evidenze mediche emerse dai referti. Sono casi questi, peraltro numerosiss­imi, in cui si verifica una vera e propria « ingiustizi­a epistemica » , per dirla con la filosofa Miranda Fricker: una persona non viene ritenuta credibile per il fatto di appartener­e a un gruppo, in questo caso il genere femminile, marginaliz­zato. Con l’effetto, in questo caso, di produrre « vittimizza­zione secondaria » . Se l’introduzio­ne di nuove fattispeci­e di reato non è accompagna­ta da un aumento di risorse interpreta­tive per decodifica­re situazioni di subordinaz­ione e diseguagli­anza, anzitutto nel corpo giudicante – la richiesta di corsi di formazione ad hoc va in questa direzione – i « diritti umani delle donne » resteranno, purtroppo, largamente inascoltat­i.

MANCA ANCORA UN REATO PER IL FEMMINICID­IO, PER LA VIOLENZA DI GENERE E PER IL MANCATO CONSENSO

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