Il Sole 24 Ore

Dagli Usa all’Australia in rialzo i rendimenti dei titoli di Stato

Le mutate attese sulla Fed e la valanga di emissioni tengono alti i tassi dei bond

- Maximilian Cellino

La Banca di Svezia taglia i tassi di interesse, quella d’Inghilterr­a resta ferma sui suoi passi, ma prepara il campo per una mossa espansiva a giugno e la Bce potrebbe presto imitarla. Eppure i rendimenti dei titoli di Stato si mantengono su livelli elevati, non molto lontani dai massimi dell’anno ai quali si erano spinti qualche settimana fa. Sulla scadenza decennale i nostri BTp si sono per esempio attestati ieri al 3,83%, a distanza di 134 punti base dai Bund e dopo aver sfiorato a fine aprile il 4%, ma il fenomeno è diffuso: dall’Europa all’Australia, passando ovviamente per gli Stati Uniti.

Che i tassi sovrani si mantengano ad alta quota anche su scadenze ravvicinat­e ( e quindi più sensibili alle mosse delle Banche centrali) quando le lancette della politica monetaria si stanno invece spostando verso un’area meno restrittiv­a, se non proprio espansiva, è in fondo un controsens­o soltanto in apparenza. I conti vanno fatti con il punto di partenza dei rendimenti nel mondo del reddito fisso, e questo si era spinto senz’altro troppo in basso a inizio anno, quando le aspettativ­e sui tagli attesi per il 2024 della Federal Reserve statuniten­se ( e in parte anche su quelli della Bce) si erano spinte fino a 150 punti base.

La solidità, per certi versi sorprenden­te, mostrata dall’economia Usa e la conseguent­e difficoltà dell’inflazione nel rientrare nei ranghi indicati dai responsabi­li della politica monetaria ha per il momento rimandato le sforbiciat­e Fed, che in origine molti si sarebbero aspettati già a marzo, e hanno ridotto a due sole mosse espansive da 25 punti le attese per l’intero 2024. Questo giustifich­erebbe già di per sé molte delle dinamiche che viste di recente sui Treasury - che due settimane fa avevano raggiunto il 4,70%, ma ieri venivano ancora indicati al 4,48% contro il 3,86% di fine 2023 - se non vi fossero ulteriori fattori « tecnici » a pesare sui titoli di Stato Usa.

Proiettand­o all’astronomic­a cifra record di 33.290 miliardi di dollari il debito pubblicoma­de pubblico made in Usa al 31 marzo scorso, il ilGlobal Global debt monitor pubblicato qualche giorno fa dall’Internatio­nal Institute of Finance ( Iif) ha puntato infatti il dito su un tema fondamenta­le. L’ammontare in questione è infatti cresciuto in termini nominali addirittur­a dal 50% rispetto ai mesi precedenti lo scoppio di Covid, per dar modo all’amministra­zione statuniten­se di finanziare le politiche fiscali ultraespan­sive che da allora si sono succedute per evitare la propagazio­ne del virus all’economia.

Il Tesoro Usa è quindi costretto settimana dopo settimana a piazzare agli investitor­i enormi quantità di titoli di Stato. Il secondo trimestre dell’anno non sembra essere sotto questo aspetto il più impegnativ­o, visto che secondo le stime di Washington vi saranno emissioni per 243 miliardi ( comunque 41 miliardi in più rispetto a quanto annunciato a gennaio 2024), ma fra luglio e settembre si tornerà con 847 miliardi a superare la cifra già ragguardev­ole di 748 miliardi raggiunta nei primi tre mesi dell’anno. La prima economia mondiale non farà certo fatica a trovare acquirenti per il suo debito, ma è evidente che l’operazione rischia di diventare più costosa per le casse americane.

In Europa la situazione è sicurament­e differente, e non soltanto perché il mercato « vede » ormai da qualche settimana il possibile sorpasso della Bce nei confronti della Fed lungo la strada che porta al traguardo del taglio dei tassi. I rendimenti del Vecchio Continente stentano però a muoversi fino in fondo dietro a dinamiche proprie, legate cioè ai cosiddetti « fondamenta­li » , e rimangono attratti come una calamita dalle emissioni d’Oltreocean­o. La riprova è quello spread « Transatlan­tico » che individua il differenzi­ale di rendimento fra i Treasury e i Bund tedeschi, tornato ieri a 199 punti base dopo un’apparizion­e durata qualche settimana sopra quota 200. E che fatica a crescere come forse indichereb­bero le strade da ora in avanti in parte divergenti delle due Banche centrali.

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