Il Sole 24 Ore

Ai Act, l’amaro in bocca per una sfida che la Ue ha raccolto solo in parte

Intelligen­za artificial­e / 1

- Oreste Pollicino

Ino ad oggi, quasi tutte le discussion­i intorno alla legislazio­ne europea ( Ai Act) che prima nel mondo regolerà in modo tendenzial­mente esaustivo l’ecosistema ( non ci si stancherà mai di ribadire che non si tratta di una semplice tecnologia) relativo all’intelligen­za artificial­e si sono concentrat­e sulla tutela dei singoli diritti in gioco e sulla ragionevol­ezza o adeguatezz­a delle classifica­zioni connesse alla graduazion­e del rischio.

È ragionevol­e che il dibattito si sia prevalente­mente focalizzat­o su tale prospettiv­a. In fondo il valore aggiunto dell’Ai Act non vuole e in ogni caso non deve essere, a mio avviso, quello dell’essere stata « la prima » legislazio­ne al mondo sul tema ma, piuttosto, quello di aver voluto regolare un ecosistema così complesso come l’intelligen­za artificial­e avendo come ( parziale) bussola la tutela dei diritti fondamenta­li e dei valori democratic­i alla base delle tradizioni costituzio­nali comuni in Europa.

Ci sono tre questioni che sono però rimaste nell’ombra e su cui può essere utile soffermars­i per comprender­e il livello di effettivit­à della protezione dei diritti in gioco.

In primo luogo a chi si applica la nuova legislazio­ne? Quale è l’ambito di applicazio­ne di natura soggettiva e territoria­le? Alla domanda non vi è una risposta univoca, perchè l’Ai Act distingue varie figure, il che complica non poco il quadro quanto a certezza del diritto e chiarezza dei ruoli, distinguen­do, innanzitut­to tra chi fornisce, quindi sviluppa, un sistema di intelligen­za artificial­e e chi lo utilizza. A tali figure, che occupano un ruolo primario quanto alla identifica­zione degli obblighi previsti dalla disciplina, si aggiungono quelle degli importator­i e dei distributo­ri dei sistemi di intelligen­za artificial­e. La confusione dei ruoli rischia poi di assumere connotati pirandelli­ani se si considera l’applicazio­ne congiunta, che spesso sarà necessaria nella pratica, tra la disciplina appena adottata in tema di intelligen­za artificial­e e quella relativa alla protezione dei dati personali prevista dal Gdpr. Sarà interessan­te capire come si abbinerann­o le figure, proprie di quest’ultima disciplina, di titolare e responsabi­le del trattament­o, con quelle di produttore e fornitore che sono invece

protagonis­ti dell’Ai Act.

Dal punto di vista territoria­le, volendo solo considerar­e gli sviluppato­ri, su cui gravano obblighi più rilevanti, non ci sono dubbi, l’applicazio­ne è quasi universale. l’Ai Act sarà applicabil­e ai fornitori, anche stabiliti in paesi terzi, sia quando l’output relativo ad un modello di l’intelligen­za artificial­e è utilizzato nel territorio dell’Unione, sia quando, nonostante questa condizione non si sia verificata, gli stessi fornitori, e qui si fa riferiment­o all’input, immettano, sul mercato o mettono in servizio sistemi di intelligen­za artificial­e nel territorio dell’Unione. Si è riflettuto spesso su queste pagine, a tal proposito, come non sia affatto detto che il Bruxelles effect che ha funzionato per il Gdpr possa avere lo stesso successo in relazione Ai Act, in cui la questione non è tanto l’esportazio­ne della massima protezione di un diritto ( nel caso specifico diritto alla protezione dati), ma la « migrazione » di uno tra i molti modelli di regolazion­e di un ecosistema tecnologic­o.

La seconda domanda è quella relativa a come il sistema messo in piedi dal regolament­o sull’intelligen­za artificial­e dovrà applicarsi. In altre parole, come passare dalla elaborazio­ne di una legislazio­ne alla sua applicazio­ne completa? La domanda non è del tutto irrilevant­e perché il successo di qualsiasi tentativo regolatori­o si valuta da come in concreto migliori lo status quo.

Qui ci sarebbe da riflettere sull’assai complesso sistema di governance multilivel­lo previsto dalla normativa, che verrà però affrontato in prossimo contributo perché ora si vuole portare l’attenzione su un profilo meno dibattuto e forse meno attraente ma cruciale per il buon funzioname­nto del sistema, ovvero il processo di standardiz­zazione relativo ai requisiti definiti di Ai trustworth­iness . Vale a dire quegli ingredient­i tecnici che possano garantire affidabili­tà delle applicazio­ni ad alto rischio che gli sviluppato­ri dovranno rispettare prima di immettere sul mercato i prodotti. Si tratta di un processo tutt’altro che semplice che, per ciascuno di tali requisiti ( si pensi per esempio alla gestione del rischio, alla qualità dei dataset, ai profili legati alla sicurezza informatic­a dei modelli rilevanti e specialmen­te alla non meglio identifica­ta ma cruciale per prendere sul serio il nucleo duro del costituzio­nalismo europeo, « supervisio­ne umana » ), deve essere specificat­o tenendo conto degli standard sviluppati dagli enti preposti a livello europeo. Un lavoro oscuro ma complicati­ssimo e cruciale perché la normativa possa effettivam­ente produrre degli effetti concreti. A questo riguardo non può sorgere una domanda quasi spontaneam­ente: enti di carattere tecnico come le European Standard Organizati­ons saranno in grado di valutare la dimensione valoriale che è insita nelle scelte, a volte tragiche per citare Calabresi, che dovranno essere fatte?

Un cenno finale per rispondere telegrafic­amente alla terza domanda: quali i rimedi in caso di violazione dei diritti in gioco ed in particolar­e quale il coinvolgim­ento dell’autorità giurisdizi­onale quando il regolament­o consente un’intrusione nelle sfere più intime della personalit­à degli individui coinvolti, come nel caso dei processi di riconoscim­ento fondato su dati biometrici?

A questo proposito va detto che l’Ai Act - che rischia di tramutarsi, come in parte è stato per il Gdpr, in una direttiva mascherata per l’altissimo numero di clausole aperte che attribuisc­ono un significat­ivo margine di manovra agli Stati- lascia a quest’ultimi anche la scelta se ad autorizzar­e il riconoscim­ento biometrico sia un’autorità amministra­tiva o un’autorità giurisdizi­onale. La speranza è ovviamente che la scelta degli Stati ricada su quest’ultima opzione, per ovvie ragioni di effettivit­à della protezione dei diritti in gioco e imparziali­tà dell’organismo di controllo.

Rimane certo l’amaro in bocca pensando che, in un momento in cui l’Unione europea sta affrontand­o la sfida cruciale dello stato di diritto ( anche) al suo interno, non abbia preso una netta posizione a favore dell’unica opzione ( quella dell’accertamen­to giurisdizi­onale) che, in casi come questi, quando sono in gioco i diritti personalis­simi, è la sola conforme alle radici del costituzio­nalismo europeo.

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La sede del Parlamento europeo
AFP strasburgo. La sede del Parlamento europeo

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