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Solide, leggere e veloci, le navi vichinghe po tevano navigare tanto in mare aperto quanto lungo
iumi. Rappresentaro no la massima espressione della tecnologia navale nordeuropea tra , e ,,, secolo, e garantivano velo cit e capacit di navigare anche in fondali bassi. Ciò gra ie al pescaggio ridotto dello scafo, qualit deci siva per la buona riuscita dell’attivit predatoria.
La più difusa di queste navi era la D, lunga circa m, larga dai ai m e con un pescaggio in feriore a 0 cm. Era mossa da 0 rematori e pote va trasportare 0 uomini. Gra ie alla prua intagliata a formaa Sdiinbisetsrtaie, ufneroodcie,gllai navoerevcichingi a ppiaùrtfeanmuotisa peruònaild a md a ldo ngroapbpareda sentatroitrsouvlalati maconiveet a asonto, to lungoceonlttrreo d0i omr,igtrinae sportavroaminanoaain80pruovmininc ia. 0osse dadiir7emreinetodaslolanvoeilna
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iVichinghi a ripetere simili azioni per ottenere altri compensi. Critiche non prive di fondamento, visto che il sovrano e i suoi successori sarebbero stati costretti a cedere e pagare altre tredici volte. Carlo, tuttavia, aveva avuto il merito di trarre insegnamento dallo smacco subìto, facendo il possibile per rinforzare le difese dei suoi territori.
Nell’editto di Pistres, emesso nell’864, Carlo aveva ordinato che ogni uomo proprietario di un cavallo si rendesse disponibile a militare tra le fila di un esercito di liberazione dai Vichinghi, nel tentativo di creare una difesa mobile da contrapporre ai predoni prima che potessero saccheggiare le sue terre e poi fuggire per l’ennesima volta. Tale contingente costituì il primo embrione della futura cavalleria francese. Contemporaneamente, il sovrano aveva disposto che ogni città affacciata su un fiume venisse dotata di ponti fortificati dai quali potersi meglio difendere dai pirati. A Parigi erano stati costruiti due di tali ponti, uno in pietra e l’altro in legno, su entrambi i lati dell’île de la Cité. Fu così che, quel fatidico 24 novembre dell’anno del Signore 885, la popolazione poté disporsi a resistere alla selvaggia furia vichinga con qualche speranza in più rispetto a quarant’anni prima. Si rivelò comunque un’impresa durissima.
La capitale fortificata
Le cronache del tempo forse esagerano nel quantificare i numeri dell’esercito invasore: 30 mila armati sembrano una forza impensabile per il periodo, e ne sarebbero bastati un decimo per spazzare via ogni resistenza. Non bisogna dimenticare che Parigi era tutta compresa negli otto ettari dell’île de la Cité, una sorta di castrum dove i parigini (non più di 10 mila) si erano rifugiati a partire dal V secolo, in fuga dai saccheggi e dalle distruzioni seguite al collasso dell’impero Romano. A difendere la città non vi erano che 200 uomini in armi al comando di Oddone, succeduto al padre Roberto il Forte nella carica di duca di Francia, responsabile delle terre tra Senna e Loira. Nel frattempo, la Francia Occidentale aveva patito il succedersi di regni precari, finché la corona non era finita in capo a Carlo il Grosso, già re
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di Germania e d’italia, a cui giunse il ricatto vichingo: paga e sarai lasciato in pace. Il sovrano rifiutò e i Vichinghi si presentarono in forze a Parigi, decisi a prendersi, armi in pugno, ciò che pretendevano. In città, Oddone aveva proseguito l’opera di fortificazione del padre, munendo i ponti di due torri di guardia: una scelta che si sarebbe rivelata molto assennata. Le opere difensive ressero per tre giorni l’urto selvaggio della furia vichinga. L’impiego di macchine da guerra (baliste, manganelle e catapulte) e la pioggia di frecce e pietre riversata su Parigi non bastarono ai Vichinghi per penetrare in città. Al contrario, essi furono respinti dalle mura e inondati di cera e pece bollenti.
Il 27 novembre gli assalitori cambiarono strategia, e attaccarono scavando gallerie e impiegando gli arieti e il fuoco. Tutto inutile: Parigi
resisteva. La città venne allora cinta d’assedio e il territorio circostante razziato. Nel frattempo, da parte vichinga furono scavate trincee e recuperate grandi quantità di terra che, a partire dal gennaio dell’866, vennero scaraventat nel fiume insieme a resti di piante, carogne di animali e corpi di prigionieri trucidati. L’idea era quella di riempire la Senna fino a renderla percorribile a piedi, dando così modo alla fanteria di aggirare i ponti. Ma anche quello stratagemma risultò vano.
L’incertezza del re
Straordinari guerrieri animati da un impeto senza eguali, i Vichinghi non avevano però esperienza nella conduzione di un assedio. Fallirono anche quello portato al monastero di Saint Germain-des-prés, uno dei luoghi di culto cattolici più antichi della città, dove viveva l’abate benedettino Abbone, che sull’assedio di Parigi ci ha lasciato un poema epico scritto in latino. La situazione appariva senza sbocchi quando, ai primi di novembre, in soccorso degli assedianti sopraggiunse il maltempo. Piogge torrenziali fecero alzare il livello
della Senna che, ostruita com’era di rifiuti, esondò e fece crollare uno dei ponti. La torre nordorientale rimase isolata, difesa soltanto da una decina di armati che si rifiutarono di cedere le armi e vennero trucidati.
Vinta la resistenza sul fiume, il grosso degli assedianti oltrepassò Parigi e si diede alla razzia di Le Mans e Chartes, mentre a tenere in scacco la città rimase una piccola guarnigione. Ormai allo stremo, i parigini riuscirono a infiltrare degli uomini oltre le linee nemiche e raggiunsero l’italia per pregare Carlo il Grosso di intervenire e salvare la città. Al sovrano, però, non sorrideva l’idea di uno scontro aperto con i Vichinghi e in soccorso a Parigi arrivò soltanto il suo rappresentante in Germania, Enrico di Sassonia. Gli assediati ottennero provviste e rinforzi, ma la situazione rimase disperata. Nel maggio dell’886, in città scoppiò un’epidemia e la sorte di Parigi sembrava segnata. Fu
Oddone in persona a superare le linee nemiche per chiedere aiuto al sovrano, sordo fino a quel momento ai lamenti di Parigi. Per convincerlo a intervenire servì la ribellione dei grandi dell’impero che, alla dieta di Metz del luglio 886, pretesero che il re muovesse con l’esercito verso la Francia. Carlo il Grosso accampò il suo esercito ai piedi della collina di Montmartre solo in ottobre. I parigini esultarono: l’assedio stava per terminare e la fine dei Vichinghi era vicina. Rimasero però delusi nel constatare che, seppur in vantaggio numerico, il re evitò lo scontro con i predoni, ai quali invece fu elargito un riscatto in argento e concesso di risalire la Senna fino alla fertile Borgogna (terra ostile al sovrano), offerta alle razzie degli invasori. Indignati dalla viltà di Carlo, i parigini si rifiutarono di permettere che, sulla via del ritorno, i predoni, carichi di bottino, passassero in città, e li obbligarono a tirare in secca le barche e trascinarle con fatica fino alla Marna.
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