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a leggenda racconta che ogni anno, nell’anniversario di un delitto perpetrato il 4 dicembre 1563, l’impronta di una mano femminile insanguinata riappaia sul muro della stanza dove si consumò l’assassinio. Apparterrebbe alla povera Baronessa di Carini, uccisa insieme al suo amante proprio nella stanza dove si rinnoverebbe l’apparizione sovrannaturale. Tutto ciò nella cornice favolosa di un maniero arabo-normanno (sopra) a trenta chilometri circa da Palermo, appollaiato su un colle roccioso a guardia del feudo che, ai tempi, apparteneva ai La Grua-talamanca. La nobildonna Laura Lanza di Trabia (nel tondo, il suo presunto sarcofago) era andata sposa, giovanissima, a un discendente del casato proprietario del castello, don Vincenzo. Poi, però, aveva finito per cedere alle lusinghe di un cugino del marito, il bel Ludovico Vernagallo.
La tresca era proseguita per anni, nonostante fosse divenuta di dominio pubblico. Fino a quel fatidico 4 dicembre, quando Cesare Lanza, padre di Laura (divenuta, a seguito del matrimonio, Baronessa di Carini), non raggiunse il castello. Vi trovò il genero fuori di sé per aver colto moglie e amante in flagrante adulterio. Le carte del processo raccontano che fu proprio il padre di Laura a mostrarsi il più risoluto nell’impugnare la lama che freddò gli amanti e ripristinò l’onore familiare. Il lignaggio dei due casati consentì a suocero e genero di venire prosciolti da ogni accusa, e sui resoconti ufficiali cadde la sordina della censura.
Storie di strada
Il fattaccio, però, trapelò e rimase impresso nella memoria popolare: la sorte dei poveri amanti divenne così uno dei topos narrativi preferiti dai cantastorie ambulanti, alimentando la memoria collettiva attraverso i secoli. Un racconto a tinte fosche, che nel 1975 divenne noto a tutti gli italiani grazie allo sceneggiato L’amaro caso della baronessa di Carini, prodotto dalla Rai e interpretato da Ugo Pagliai, Janet Agren e Paolo Stoppa.