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Sappiamo che furono Dante, etrarca e occaccio, i padri dell’italiano, ad aeeandonare il latino per scrivere in volgare . a la lingua parlata dalla gente comune era Een diversa da Tuella di poeti e letterati, e variava in maniera sensieile da una re
er molti italiani, l’immagine più evocativa del Medioevo è quella veicolata dal film L’armata Brancaleone, il capolavoro che Mario Monicelli girò nel 1966. Lontanissimo dalle fantasiose ricostruzioni romantiche e da quelle più rigorose e severe della storiografia accademica, il bizzarro Medioevo ritratto da Monicelli è privo di riscontri scientifici, ma ha il merito di richiamare l’attenzione su un aspetto fondamentale per ogni civiltà: la capacità di esprimersi in modo comprensibile. Nel film, ciascuno degli sgangherati compagni d’avventura messi assieme da Brancaleone parla un italiano tutto suo, approssimativo, infarcito di termini dialettali e punteggiato di latino decisamente maccheronico, eppure tutti riescono a intendersi. Paradossalmente, è forse questo l’elemento più autentico di tutta la pellicola.
Una lingua per tutti
Il lento disgregarsi dell’impero Romano ebbe tra le sue conseguenze il drammatico interrompersi delle vie di comunicazione: le strade, meno sicure, rendevano gli spostamenti difficoltosi, impedendo gli scambi commerciali con i grandi centri e condannando intere regioni a un crescente isolamento. In parallelo, l’arrivo di nuovi popoli nelle terre non più controllate dall’urbe introdusse nuovi idiomi che andarono prima ad affiancarsi e poi a sovrapporsi al latino classico, dando origine a sacche linguistiche in cui la lingua ufficiale dell’impero venne a poco a poco dimenticata.
Per secoli, nello sconfinato territorio dominato da Roma il latino era stato la lingua che aveva permesso a popoli lontanissimi tra loro di trovare un linguaggio comune, un po’ come accade oggi con l’inglese. Tuttavia, era sempre esistita una certa differenza tra il latino scritto della giurisprudenza, della retorica ciceroniana, della diplomazia e della letteratura e il latino parlato (non solo dal popolo minuto), soprattutto al di fuori dell’urbe, dove la lingua era contaminata dagli antichi idiomi italici, sopravvissuti all’imporsi di Roma. Così, con il passare del tempo e in seguito agli sconvolgimenti seguiti al 476 (anno della caduta dell’impero Romano d’occidente), il latino rimase appannaggio dei dotti. Tutti gli altri, invece, indipendentemente dal ceto sociale, cominciarono a esprimersi in un latino alterato dai dialetti regionali e dal contatto con parlate diverse, dando vita in questo modo a una lingua nuova, informale
e alla portata di tutti, cioè popolare. Ma in latino “popolo” si dice vulgus, e così la nuova lingua prese il nome di volgare.
Il volgare assunse nel tempo forme diverse da paese a paese, dando origine alle lingue cosiddette neolatine, alcune delle quali divennero l’idioma ufficiale di uno Stato, come nel caso di italiano, francese, spagnolo, portoghese e romeno.
Le lingue neolatine vengono chiamate anche “romanze”: il termine deriva dall’espressione romanice loqui, che significa “parlare al modo dei Romani”, e indicava il linguaggio di coloro che, dopo il disfacimento dell’impero, parlavano appunto quel latino “volgare” e non gli idiomi germanici dei barbari conquistatori.
Le radici delle lingue moderne
Naturalmente, è impossibile fissare una data precisa per la nascita della lingua volgare italiana, in quanto il passaggio dal latino a questo nuovo modo di esprimersi fu lento e graduale. Le prime tracce sembrano affiorare già negli anni fra il III e il IV secolo, ma bisognerà aspettare L’VIII secolo per assistere, pressoché ovunque, all’affermarsi di un linguaggio sempre più distante dal latino classico e sempre più simile alle lingue moderne.
L’ufficializzazione di questo fenomeno fu sancita nell’813 dal Concilio di Tours, voluto da Carlo Magno (il fondatore del Sacro Romano Impero), sempre più preoccupato di consolidare l’ordine politico e religioso che aveva imposto nei suoi domini, spesso evangelizzati con la forza. Così, in obbedienza alle disposizioni imperiali, i vescovi riuniti in concilio nella città francese giunsero a una fondamentale conclusione: «All’unanimità abbiamo deliberato che ogni vescovo tenga omelie, contenenti le ammonizioni necessarie a istruire i sudditi circa la fede cattolica, secondo le loro capacità di comprensione, sull’eterno premio per i buoni e sull’eterna dannazione per i malvagi, ed anche sulla futura resurrezione e il giudizio finale, e con quali opere si possa meritare la beatitudine, con quali perdersi. E che si studi per tradurre in modo comprensibile le medesime omelie nella lingua romana rustica o nella