IL CONTO DELLA CRISI UNDICI BUCHI IN TRENTA MESI
Dalla fallita quotazione in Borsa di Popolare di Vicenza alla richiesta di intervento per Carige Un sistema che fatica a trovare l’equilibrio dopo le troppe governance zoppe e i tanti «furbi»
Il 3 maggio del 2016 la Banca Popolare di Vicenza doveva quotarsi in Borsa. La data era stata fissata. La macchina stava lavorando a pieno regime per piazzare un aumento di capitale da 1,5 miliardi di euro. Si stavano definendo gli ultimi dettagli prima del road show e del collocamento delle nuove azioni a investitori e risparmiatori. Per gli organi di Vigilanza, su tutti Banca d’italia e Consob, che aveva da poco vistato il prospetto informativo dell’operazione da complessive 714 pagine, tutte le regole erano state rispettate. Peccato che al momento della vendita, salvo qualche sparuto aficionados che si era ritirato a vivere nella giungla giapponese, quasi nessuno si fece avanti. La Banca Popolare di Vicenza finì così a gambe all’aria con tutto il suo vasto complesso di scheletri ben stivati negli armadi e collezionati nei vent’anni in cui venne gestita da Gianni Zonin e Samuele Sorato. Veneto Banca percorse il medesimo sentiero poche settimane dopo: il 24 giugno 2016 la sua offerta pubblica di vendita registrò lo 0,1 per cento di adesioni per mano di un unico investitore, giungendo al medesimo punto. Finirono entrambe in liquidazione coatta amministrativa e quanto (poco) di buono c’era ancora dopo vent’anni di corsa dissennata (per Veneto Banca attribuibile soprattutto ala coppia Vincenzo Consoli- Flavio Trinca), venne ricondotto in Intesa Sanpaolo.
Crac miliardari
Da allora sono passati poco più di due anni e mezzo, 30 mesi e quello che sembrava il crac del secolo, costato 20 miliardi di euro conteggiando solamente il valore azzerato delle azioni in mano a oltre 200 mila soci e l’intervento del Fondo Atlante, si è rivelato essere solo il primo di una lunga serie di vergognose gestioni pseudo-manageriali emerse nel frattempo e che da allora hanno presentato il conto.
In trenta mesi, in Italia, sono finite a gambe all’aria 11 banche. Dopo le due ex popolari del Veneto è toccato alla Popolare dell’etruria e del Lazio, alla Banca delle Marche di Massimo Bianconi e a Carichieti (finite nel porto sicuro di Ubi), a Cariferrara (salvata dalla Bper), alle Casse di Risparmio di San Miniato, Rimini e Cesena, che un anno fa sono state messe in sicurezza dal Crédit Agricole. La settimana scorsa è toccato alla Carige: ha chiesto aiuto (volontario) al sistema creditizio. E poi su tutte c’è il Monte dei Paschi di Siena.
Il governo italiano, con denaro pubblico, è intervenuto soprattutto nella partita delle due banche venete (e ora aprirà i cordoni della borsa per rimborsare gli azionisti truffati) e del Monte dei Paschi di Siena.
Verso Bruxelles
Nel solo 2017 sono finiti a Siena 5,4 miliardi pubblici in cambio del 68,247 per cento del capitale dell’istituto senese («investire sarà un affare», disse l’allora premier Matteo Renzi). Oggi di quei soldi è rimasto meno di 1,1 miliardi di euro, ovvero il 68,247 per cento della capitalizzazione di Borsa che venerdì scorso, 16 novembre, si aggirava attorno a quota 1,6 miliardi. E nessuno ha ancora pagato il conto. Il processo ai vertici della Popolare di Vicenza si aprirà il primo dicembre nella città berica: aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza sono le accuse più ricorrenti. Delle partite aperte la più preoccupante è quella del Monte dei Paschi