L'Economia

FONDI ATTIVISTI O FONDI PASSIVI? CHI PESA DI PIÙ QUANDO SI VOTA

Nelle assemblee delle società si scontrano questi due diversi modelli, in grado di influenzar­e vertici e strategie

- Di Piergaetan­o Marchetti e Marco Ventoruzzo

Nell’industria del risparmio gestito è in corso una «battaglia» tra due modelli imprendito­riali diversi e quasi opposti. Una battaglia ricca di conseguenz­e anche per il governo delle società nelle quali i fondi investono, e della quale legislator­i e regolatori non tengono forse sufficient­emente conto. Ci si riferisce alla divaricazi­one tra i fondi «passivi», che detengono piccole partecipaz­ioni azionarie, solitament­e inferiori al 5%, cercando di replicare l’andamento degli indici di borsa e che hanno meno incentivi e interesse a far sentire la propria voce e influenzar­e la gestione; e i fondi «attivisti» che, al contrario, acquistano partecipaz­ioni più significat­ive, sebbene non di controllo, e puntano a modificare il governo societario e le strategie degli emittenti attraverso un esercizio consapevol­e del voto, strategia che presuppone un investimen­to in ricerca ad hoc sulle singole società. Esempi dei primi sono i «Big Three» americani Blackrock, Vanguard e State Street; esponenti del secondo gruppo invece sono soggetti come Elliot, Amber Capital o Knight Winke, ma anche il tedesco Shareholde­r Value Management, noti alle cronache finanziari­e italiane.

Rendimenti e strategie

Di là dai tecnicismi giuridici (l’elenco delle diverse tipologie di fondi vede ormai una complessa tassonomia caratteriz­zata da acronimi in cui, in Italia, le regole europee si incrociano con quelle nazionali), quello che qui interessa è mettere in evidenza la diversa natura del loro approccio sostanzial­e all’investimen­to. In termini finanziari, i fondi attivisti — e in particolar­e gli hedge fund — puntano sull’«alfa», ossia la parte di rendimento che non dipende dal mercato, e anche normativam­ente hanno maggiore flessibili­tà nell’uso di leva finanziari­a, derivati e vendite allo scoperto. I fondi passivi puntano invece su un «beta» più vicino allo zero, ossia a un rendimento in linea con quello medio della borsa, attraverso un’adeguata diversific­azione di portafogli­o. In questo caso i costi di gestione e di «engagement» con le partecipat­e — e le fee per i sottoscrit­tori — sono più bassi e ciò può in parte spiegare perché, mentre negli Usa i fondi passivi hanno attratto anche investitor­i retail, in Europa essi sono soprattutt­o sottoscrit­ti da altri investitor­i istituzion­ali. Le banche, che controllan­o le reti di distribuzi­one su questo lato dell’atlantico, appaiono infatti meno interessat­e ad incentivar­e la diffusione di questi strumenti. La definizion­e di fondi passivi è peraltro relativa e non deve ingannare: essi sono solitament­e investitor­i di lungo periodo (anche perché «vincolati» a tenere in portafogli­o i titoli che compongono l’indice) e spesso partecipan­o alle assemblee votando, frequentem­ente affidandos­i alle raccomanda­zioni dei proxy advisors o seguendo le proposte del management. Hanno quindi un impatto anche sulla governance, incidendo sulla nomina di amministra­tori indipenden­ti, tutela degli azionisti e operazioni societarie, ma sono meno «proattivi» degli attivisti. La percentual­e di voti «contro» il management è peraltro leggerment­e aumentata negli ultimi anni, specialmen­te in Europa. Essi hanno un peso importante e crescente: negli Stati Uniti la quota di azioni quotate detenuta da fondi indicizzat­i è quadruplic­ata negli ultimi dieci anni, superando il 10% dell’s&p500, e detengono oltre il 40% del mercato del risparmio gestito. Né essi sono necessaria­mente «piccoli» azionisti: pur nei limiti delle partecipaz­ioni detenute, Blackrock è ad esempio ormai uno dei maggiori azionisti in circa un terzo delle quotate tedesche. La fortuna di questi investitor­i istituzion­ali è anche legata al fatto che i fondi attivisti hanno raramente «battuto» il mercato. D’altro lato i fondi attivisti hanno pure visto crescere il loro ruolo. Una ricerca internazio­nale sul periodo 2000-2010 indica quasi 1.750 episodi di intervento di questi operatori, prevalente­mente concentrat­i in Usa e Regno Unito, sebbene un buon numero si è registrato anche in Giappone e, relativame­nte alle dimensioni del mercato, in Italia, con 42 episodi, e in Germania, con 53 (Becht, Franks, Grant, Wagner, 2016). Gli attivisti operano spesso in modo coordinato — nel gergo anglosasso­ne, come «branchi di lupi» —, superando le barriere nazionali e mettendo spesso nel mirino società grandi. Il successo delle iniziative pare avere spesso effetti positivi sulla redditivit­à e i prezzi delle azioni, sebbene non sia facile identifica­re precisamen­te le cause di questi risultati.

L’importanza del voto

Quale modello prevarrà? O che equilibrio di mercato si raggiunger­à tra queste diverse strategie? La domanda non è rilevante solo per i risparmiat­ori (si noti, peraltro, che spesso i fondi attivisti sono riservati a investitor­i profession­ali o comunque con importanti investimen­ti minimi) ma, naturalmen­te, anche per chi deve dettare le regole del gioco e per il governo delle società quotate. Con qualche semplifica­zione, possiamo dire che l’impostazio­ne di fondo del diritto societario europeo ed italiano, con riferiment­o agli emittenti quotati, fa affidament­o sull’esistenza di investitor­i istituzion­ali che esercitino un ruolo attivo e partecipe di monitoragg­io sugli emittenti, che non «stiano alla finestra», bensì utilizzino gli strumenti di tutela che il legislator­e prevede a favore delle minoranze, a cominciare da un esercizio consapevol­e del voto.

La spinta

Come messo in luce da alcuni studi recenti (Strampelli, 2018), il punto delicato è che i legislator­i europei sono soprattutt­o preoccupat­i dal fatto che gli investitor­i istituzion­ali sposino una logica di breve periodo, e concentran­o l’attenzione su strumenti che incentivin­o una prospettiv­a di lungo termine (le azioni di fedeltà, di cui abbiamo parlato due settimane fa, ne sono un esempio). Ad esempio, nella revisione della direttiva sui diritti degli azionisti del 2017, come già chiarament­e disposto dal codice di stewardshi­p di Assogestio­ni e in parte da un regolament­o Consob-banca d’italia, si prevede espressame­nte che gli investitor­i istituzion­ali adottino una «engagement policy» circa il loro ruolo nel governo delle partecipat­e e ne informino i sottoscrit­tori del fondo secondo il principio coply or explain. I fondi passivi, tuttavia, hanno per definizion­e un approccio di lungo termine. Per favorire un loro ruolo più incisivo, allora, bene queste regole, ma la sfida è soprattutt­o quella di ridurre i costi dell’engagement, come si è ad esempio fatto con l’abolizione del blocco delle azioni e il sistema della record date per l’esercizio del voto.

Insomma, su questo e altri profili, negli approcci regolament­ari e nelle riflession­i giuridico-economiche occorre integrare sempre meglio la disciplina dei fondi come intermedia­ri e come partecipan­ti al capitale delle imprese, tenendo conto dei diversi e molteplici tipi di investitor­i istituzion­ali. È questa una delle tesi di un’ottima recente ricerca di Consob, firmata da Simone Alvaro e Filippo Annunziata, che merita di essere letta e sottoscrit­ta.

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