FONDI ATTIVISTI O FONDI PASSIVI? CHI PESA DI PIÙ QUANDO SI VOTA
Nelle assemblee delle società si scontrano questi due diversi modelli, in grado di influenzare vertici e strategie
Nell’industria del risparmio gestito è in corso una «battaglia» tra due modelli imprenditoriali diversi e quasi opposti. Una battaglia ricca di conseguenze anche per il governo delle società nelle quali i fondi investono, e della quale legislatori e regolatori non tengono forse sufficientemente conto. Ci si riferisce alla divaricazione tra i fondi «passivi», che detengono piccole partecipazioni azionarie, solitamente inferiori al 5%, cercando di replicare l’andamento degli indici di borsa e che hanno meno incentivi e interesse a far sentire la propria voce e influenzare la gestione; e i fondi «attivisti» che, al contrario, acquistano partecipazioni più significative, sebbene non di controllo, e puntano a modificare il governo societario e le strategie degli emittenti attraverso un esercizio consapevole del voto, strategia che presuppone un investimento in ricerca ad hoc sulle singole società. Esempi dei primi sono i «Big Three» americani Blackrock, Vanguard e State Street; esponenti del secondo gruppo invece sono soggetti come Elliot, Amber Capital o Knight Winke, ma anche il tedesco Shareholder Value Management, noti alle cronache finanziarie italiane.
Rendimenti e strategie
Di là dai tecnicismi giuridici (l’elenco delle diverse tipologie di fondi vede ormai una complessa tassonomia caratterizzata da acronimi in cui, in Italia, le regole europee si incrociano con quelle nazionali), quello che qui interessa è mettere in evidenza la diversa natura del loro approccio sostanziale all’investimento. In termini finanziari, i fondi attivisti — e in particolare gli hedge fund — puntano sull’«alfa», ossia la parte di rendimento che non dipende dal mercato, e anche normativamente hanno maggiore flessibilità nell’uso di leva finanziaria, derivati e vendite allo scoperto. I fondi passivi puntano invece su un «beta» più vicino allo zero, ossia a un rendimento in linea con quello medio della borsa, attraverso un’adeguata diversificazione di portafoglio. In questo caso i costi di gestione e di «engagement» con le partecipate — e le fee per i sottoscrittori — sono più bassi e ciò può in parte spiegare perché, mentre negli Usa i fondi passivi hanno attratto anche investitori retail, in Europa essi sono soprattutto sottoscritti da altri investitori istituzionali. Le banche, che controllano le reti di distribuzione su questo lato dell’atlantico, appaiono infatti meno interessate ad incentivare la diffusione di questi strumenti. La definizione di fondi passivi è peraltro relativa e non deve ingannare: essi sono solitamente investitori di lungo periodo (anche perché «vincolati» a tenere in portafoglio i titoli che compongono l’indice) e spesso partecipano alle assemblee votando, frequentemente affidandosi alle raccomandazioni dei proxy advisors o seguendo le proposte del management. Hanno quindi un impatto anche sulla governance, incidendo sulla nomina di amministratori indipendenti, tutela degli azionisti e operazioni societarie, ma sono meno «proattivi» degli attivisti. La percentuale di voti «contro» il management è peraltro leggermente aumentata negli ultimi anni, specialmente in Europa. Essi hanno un peso importante e crescente: negli Stati Uniti la quota di azioni quotate detenuta da fondi indicizzati è quadruplicata negli ultimi dieci anni, superando il 10% dell’s&p500, e detengono oltre il 40% del mercato del risparmio gestito. Né essi sono necessariamente «piccoli» azionisti: pur nei limiti delle partecipazioni detenute, Blackrock è ad esempio ormai uno dei maggiori azionisti in circa un terzo delle quotate tedesche. La fortuna di questi investitori istituzionali è anche legata al fatto che i fondi attivisti hanno raramente «battuto» il mercato. D’altro lato i fondi attivisti hanno pure visto crescere il loro ruolo. Una ricerca internazionale sul periodo 2000-2010 indica quasi 1.750 episodi di intervento di questi operatori, prevalentemente concentrati in Usa e Regno Unito, sebbene un buon numero si è registrato anche in Giappone e, relativamente alle dimensioni del mercato, in Italia, con 42 episodi, e in Germania, con 53 (Becht, Franks, Grant, Wagner, 2016). Gli attivisti operano spesso in modo coordinato — nel gergo anglosassone, come «branchi di lupi» —, superando le barriere nazionali e mettendo spesso nel mirino società grandi. Il successo delle iniziative pare avere spesso effetti positivi sulla redditività e i prezzi delle azioni, sebbene non sia facile identificare precisamente le cause di questi risultati.
L’importanza del voto
Quale modello prevarrà? O che equilibrio di mercato si raggiungerà tra queste diverse strategie? La domanda non è rilevante solo per i risparmiatori (si noti, peraltro, che spesso i fondi attivisti sono riservati a investitori professionali o comunque con importanti investimenti minimi) ma, naturalmente, anche per chi deve dettare le regole del gioco e per il governo delle società quotate. Con qualche semplificazione, possiamo dire che l’impostazione di fondo del diritto societario europeo ed italiano, con riferimento agli emittenti quotati, fa affidamento sull’esistenza di investitori istituzionali che esercitino un ruolo attivo e partecipe di monitoraggio sugli emittenti, che non «stiano alla finestra», bensì utilizzino gli strumenti di tutela che il legislatore prevede a favore delle minoranze, a cominciare da un esercizio consapevole del voto.
La spinta
Come messo in luce da alcuni studi recenti (Strampelli, 2018), il punto delicato è che i legislatori europei sono soprattutto preoccupati dal fatto che gli investitori istituzionali sposino una logica di breve periodo, e concentrano l’attenzione su strumenti che incentivino una prospettiva di lungo termine (le azioni di fedeltà, di cui abbiamo parlato due settimane fa, ne sono un esempio). Ad esempio, nella revisione della direttiva sui diritti degli azionisti del 2017, come già chiaramente disposto dal codice di stewardship di Assogestioni e in parte da un regolamento Consob-banca d’italia, si prevede espressamente che gli investitori istituzionali adottino una «engagement policy» circa il loro ruolo nel governo delle partecipate e ne informino i sottoscrittori del fondo secondo il principio coply or explain. I fondi passivi, tuttavia, hanno per definizione un approccio di lungo termine. Per favorire un loro ruolo più incisivo, allora, bene queste regole, ma la sfida è soprattutto quella di ridurre i costi dell’engagement, come si è ad esempio fatto con l’abolizione del blocco delle azioni e il sistema della record date per l’esercizio del voto.
Insomma, su questo e altri profili, negli approcci regolamentari e nelle riflessioni giuridico-economiche occorre integrare sempre meglio la disciplina dei fondi come intermediari e come partecipanti al capitale delle imprese, tenendo conto dei diversi e molteplici tipi di investitori istituzionali. È questa una delle tesi di un’ottima recente ricerca di Consob, firmata da Simone Alvaro e Filippo Annunziata, che merita di essere letta e sottoscritta.