Le nomine nella Ue: l’importanza di essere tedesco
La stagione delle trattative per le nomine alle principali poltrone Ue — da assegnare dopo le elezioni europee del maggio prossimo — è iniziata con un segnale politico non incoraggiante. Gli europopolari del Ppe, l’europartito della cancelliera tedesca Angela Merkel e il più numeroso nella Camera Ue, hanno scelto un tedesco, il capogruppo degli eurodeputati Manfred Weber, come candidato alla presidenza della Commissione europea. Weber ha un passato da politico regionale nella bavarese Csu, storica alleata della Cdu di Merkel, e l’esperienza nella Camera Ue. L’altro candidato del Ppe, nella corsa alla Commissione europea, era il finlandese Alexander Stubb, che è stato due volte ministro, premier e attualmente opera da vicepresidente della banca comunitaria Bei del Lussemburgo. Se fosse prevalso il curriculum, non ci sarebbe stato margine per far prevalere Weber.
Ma l’essere tedesco e «merkeliano di ferro» sembra restare una caratteristica decisiva per conquistare poltrone a livello Ue. Merkel aveva organizzato un suo intervento la settimana scorsa all’europarlamento di Strasburgo, proprio dopo la nomina del candidato del Ppe alla Commissione europea, praticamente sicura di non dover affrontare un insuccesso del suo sponsorizzato. Naturalmente «il caso Weber» ha rilanciato a Bruxelles e Strasburgo le polemiche sullo strapotere di Berlino nelle nomine comunitarie. Ma è emerso anche un intrigante retroscena. Merkel avrebbe sostenuto il fidato connazionale del Ppe anche perché pronto a farsi da parte, qualora la cancelliera scivolasse su una sconfitta elettorale alle prossime europee. In questo caso, nonostante abbia annunciato di voler completare quello che ha definito «l’ultimo mandato», potrebbe anticipare l’addio alla politica tedesca. E diventare lei la prossima presidente della Commissione europea: ribaltando la sua linea tradizionale di far nominare personaggi mediocri ai vertici delle istituzioni Ue, per non mettere in ombra i leader nazionali.