UFI FILTERS PROSSIMA FERMATA MESSICO
La strategia d’espansione della multinazionale mantovana, fornitrice dei big dell’auto, punta sulla mobilità elettrica Il presidente Girondi: «I nostri scambiatori di calore saranno fondamentali per la transizione energetica»
L’ultima bandierina appuntata sul planisfero riguarda il Messico. Sarebbe la quindicesima. La penultima è invece stata il Brasile, e poi indietro con la Polonia, la Tunisia, l’india, la Repubblica Ceca, la Corea del Nord. Indietro fino alla Cina: correva l’anno 1984, l’anno del Topo, al potere c’era Deng Xiaoping e per coprire i 1.318 chilometri che separano Pechino da Shanghai ci volevano 35 ore (oggi poco più di quattro) di un treno che attraversava lande desolate e incolte.
La lunga marcia
In effetti tutto è nato da lì, da quel primo viaggio di trentacinque anni fa che ha trasformato la mantovana Ufi Filters in una multinazionale tascabile ante litteram. Racconta il presidente Giorgio Girondi, 58 anni: «Abbiamo chiuso il 2018 con un fatturato di 440 milioni, il doppio dal 2009, e impieghiamo quattromila dipendenti, di cui 400 in Italia, in particolare nella ricerca e sviluppo, nello stabilimento di Nogarole Rocca, nel Veronese. Ma questa crescita non sarebbe mai avvenuta senza l’apertura al mercato cinese. Altro che delocalizzazione: aprire dove aprivano i grandi gruppi automotive ci ha permesso di crescere anche in Italia. Diversamente, saremmo scomparsi, schiacciati dalla concorrenza low cost asiatica e dai grandi gruppi tedeschi». Girondi la chiama «strategia local to local». Costruire filtri — filtri aria, olio ma anche i più sofisticati scambiatori di calore raffreddati ad acqua per motori e trasmissioni —, farlo bene e soprattutto farlo il più vicino possibile a dove le case automobilistiche hanno impiantato le loro linee. «Noi andiamo dove va il mercato».
E così il Brasile, dove si producono i filtri olio destinati ai motori diesel di General Motors («ma vogliamo costruire una rete di altri stabilimenti per servire l’intera area del Mercosur» dice Girondi), il Messico (Fca e gruppo Volkswagen), i lander tedeschi di Repubblica Ceca e Polonia («dove entro il 2023, grazie a un investimento di dieci milioni, raddoppieremo la capacità produttiva di scambiatori di calore») e, ovviamente, la Cina.
Ricorda l’imprenditore: «Avevo 27 anni, era il 1982 e avevo appena acquistato la totalità delle azioni dell’azienda (nata nel 1971, di cui il padre era azionista, ndr) quando incrociai per una serie di coincidenze una delegazione cinese in visita in Italia. Loro avevano un’agenda di alto livello, puntavano a una partnership con la Fiat Trattori, per intendersi: Deng Xiaoping stava portando la Cina fuori dal medioevo. Ebbene, noi piccoli subfornitori non avevamo la benché minima speranza di poter accedere a quei colloqui. E così ci limitavamo a fare sala d’attesa. Però un giorno mi capitò di fare da autista a un alto funzionario da Mantova a Bologna. In quel viaggio e durante i giorni seguenti fra noi nacque un rapporto: cercavano un partner che potesse realizzare parti meccaniche su licenza. Non mi feci scappare l’occasione: presi il primo aereo e lasciai l’italia. Quando siamo arrivati in Cina c’erano solo campi, in sei anni abbiamo realizzato sette impianti chiavi in mano e ora operiamo dove hanno installato i loro stabilimenti i big player dell’automotive».
Nemmeno la transizione energetica, con le auto elettriche che incominciano ad affacciarsi al mercato mondiale, sembra spaventare Girondi. «A parte il fatto che non credo che i motori diesel andranno in pensione tanto presto, considerato in particolare il bassissimo impatto ambientale di quelli di ultimissima generazione, ci stiamo comunque preparando al nuovo mercato di massa delle auto elettriche — spiega l’industriale —. Gli scambiatori di calore saranno centrali per i nuovi motori e il nostro innovation center di Affi in provincia di Verona è al lavoro».
C’è un ordine di grandezza che Girondi utilizza per spiegare il portato dell’innovazione nascosto in un prodotto all’apparenza maturo: il primo filtro dell’aria costruito per una monoposto di F1, la Ferrari 312-T4 del 1979, pesava 1,6 kg. L’ultima evoluzione, quella sviluppata per il campionato 2017-2018 e montato sulle auto di ben sette team, pesa solo 20 grammi.
«Eppure siamo sempre alla ricerca spasmodica di idee. Abbiamo un team dedicato di scout che osserva e analizza costantemente altri settori e mercati, poiché noi crediamo l’innovazione migliore sia quella dell’ibridazione». Si chiama open innovation, no?
440 Milioni Il fatturato realizzato dall’azienda nel corso del 2018, il doppio rispetto al 2009