TAVOLI DI CRISI
MERCHANT BANK O MINISTERO? (MA SONO ILLUSIONI)
Fra i vari ministri competenti — l’attuale o i precedenti — chi porta la responsabilità degli sviluppi recenti di alcune crisi industriali? I secondi per aver concluso alcuni accordi purchessia? O il primo per non aver controllato l’attuazione degli stessi? O — per non sbagliare — l’uno e gli altri, come sembrano pensare i rappresentanti dei lavoratori firmatari peraltro degli stessi accordi?
Quali accordi? Beh, di Mercatone Uno sappiamo ormai tutto: in amministrazione straordinaria nel 2015, oggetto di due bandi di vendita rimasti senza esito nel 2016 e nel 2017, ceduta — con il beneplacito del Mise — nel 2018 ad una società di diritto maltese fallita nel 2019, oggetto oggi — sempre secondo il Mise — di una futura «fase di reindustrializzazione per garantire un futuro certo ai lavoratori» (il cui futuro — incerto — per il momento è limitato agli ammortizzatori sociali). Dello stabilimento Whirlpool di Napoli sappiamo qualcosa meno ma pur sempre abbastanza: Whirlpool Corporation acquisisce Indesit (già nel pieno di un profondo processo di ristrutturazione) nel 2014, nel 2015 concorda con il Mise il piano industriale 2015-2018 e nel 2018 il piano 2019-2021 ambedue corredati da ammortizzatori sociali e garanzia di assenza di esuberi, cede o vorrebbe cedere nel 2019 lo stabilimento di Napoli — che occupa oltre 400 lavoratori — a società terza. Delle acciaierie di Piombino (Lucchini SPA) si parla meno ma il percorso non è meno istruttivo: in amministrazione straordinaria nel 2012 ne viene dichiarato lo stato di insolvenza nel 2013, nel 2014 — nel quadro dell’accordo di programma siglato dall’azienda con Stato e Regione — vede spegnersi il suo altoforno e viene quindi ceduta ad un gruppo algerino, nel 2018 — accompagnata da congrui finanziamenti statali e regionali a fronte della riassunzione dei 2 mila addetti — passa ad un gruppo indiano, ad oggi un lavoratore su due è ancora in cassa integrazione. E questi sono solo i casi più noti. Chi si ricorda ormai di Bekaert, di Euroallumina, di Alcoa, di Irisbus,di Pernigotti… Anche capire quanti e quali siano i tavoli di crisi è oggi un’impresa titanica. Nel sito istituzionale del Mise è inutile cercare. Ma è mai pensabile che su un tema del genere — che coinvolgerebbe, secondo le voci, 150 casi e circa 300 mila lavoratori — l’informazione non sia puntuale, aggiornata e completa?
Una sede giusta
Apparentemente ci troveremmo, dunque, di fronte ad un conclamato fallimento dello Stato. Uno Stato privo delle informazioni necessarie, sprovvisto della rilevante expertise che gioca a fare la banca di investimento cercando improbabili acquirenti per ancora più improbabili venditori, disegnando ancor più improbabili piani industriali. Finendo per fare, nella migliore delle ipotesi, il brasseur d’affaires e, nella peggiore, riducendosi a chiedere favori da restituire poi a tempo debito. Insomma, cosa c’entra il Mise con le crisi industriali? Ma è forse peggio di così. Per fare solo un paio di esempi, «era chiaro da tempo che la Whirlpool faticasse nella competizione internazionale» o anche«la crisi della grande distribuzione (leggasi: Mercatone Uno, ndr) era già stata avvistata, dura nel Paese e durissima al Sud», per usare le parole dell’ex responsabile della task force sulle crisi industriali, certamente un protagonista di queste vicende oggi in un primario studio legale. L’informazione quindi, almeno in questi casi, c’era e non mancava l’expertise (di cui, non a caso, si avvantaggia oggi il settore privato). E allora, come spiegare quanto avvenuto? Perché si è scelto di prolungare l’agonia di migliaia di famiglie, di lasciare immaginare che potessero rimanere in vita posti di lavoro che già non c’erano più? Perché non si è preso atto della realtà destinando ogni risorsa disponibile al sostegno ed alla ricollocazione dei lavoratori — oltre alla solita Cassa integrazione straordinaria — piuttosto che al supporto di iniziative che di imprenditoriale avevano forse molto poco? La questione è forse più semplice di quanto non appaia. Gli obbiettivi del ministro di turno sono solo in parte o affatto coincidenti con quelli dei lavoratori, delle imprese e del Paese. Per il ministro di turno prevalgono motivazioni in senso lato politiche se non proprio elettorali o di visibilità personale. Motivazioni che possono portare ad apporre la propria firma su un accordo, anche se fragile e destinato a non durare. Obbiettivi legittimi, sia chiaro, ed anche umanamente comprensibili. Ma, appunto, diversi e distanti da quelli che i cittadini attribuiscono loro. Ed è proprio questo il punto: perché ci ostiniamo a non capire che colui che si autodefinisce il nostro rappresentante è, in realtà e legittimamente, una controparte i cui interessi possono divergere dai nostri? Con il risultato di disprezzare ex post chi si comporta diversamente da come avevamo ingenuamente immaginato, mentre avremmo potuto più ragionevolmente restringerne ex ante il campo di azione.
Macerie da rimuovere
Il tema della limitazione dei margini di manovra dell’operatore pubblico ha molto poco di ideologico. È prima di ogni altra cosa una manifestazione di buon senso. Dareste voi una delega in bianco a terzi semplicemente perché vi manifestano la loro aspirazione a rappresentarvi o non la accompagnereste piuttosto con una serie di limiti, condizioni, obblighi, vincoli
Da Whirlpool a Ilva è difficile capire quanti siano i tavoli: sarebbero 150 casi e 300 mila lavoratori. Ma cercare sul sito del Mise è inutile
intesi a proteggere voi e le vostre risorse? Ancora sicuri che il Mise debba occuparsi di crisi industriali? Le conseguenze di tutto ciò non sono di poco conto. E vanno oltre il disagio e spesso la comprensibile disperazione di chi vede frantumarsi i propri progetti di vita. La principale responsabilità delle attuali e delle precedenti classi dirigenti sta nell’aver fatto quanto potevano e nel fare ancora oggi quanto possono per prolungare oltre ogni aspettativa le conseguenze delle due crisi del 2008 e del 2011.
A valle di una significativa crisi finanziaria il sistema economico si riscopre disseminato di macerie, ricoperto di scorie che ne impediscono il funzionamento e che ne rallentano la ripresa. Ripulirlo dalle entità visibilmente non più in grado di reggere limitandone al minimo le implicazioni sociali — concentrando ogni risorsa solo in quest’ultima direzione — è la sola strada in grado di difendere gli interessi di tutti, ivi inclusi coloro i quali si affacciano ora sul mercato del lavoro. Che valgono tanto quanto coloro che ne sono estromessi.