Le 0tto riforme sul lavoro (fatte male)
L’Europa chiede riforme per i Paesi che stanno man mano perdendo competitività, rallentando la corsa dell’unione. Il nostro è tra questi. Ma chiedere cambiamenti senza specificarne la direzione è un errore. Un conto è andare verso la semplificazione della vita delle famiglie e delle imprese, o verso la costruzione di un equilibrio che preveda la giusta salvaguardia dei diritti, e che contempli anche i doveri dei cittadini. Un altro è agevolare categorie già protette, evitare la concorrenza, favorire attraverso una pesante burocrazia la corruzione. Ogni riforma non dovrebbe portare a un accumulo di norme. L’italia da questo punto di vista non è un buon esempio. A prendersi la briga di conteggiare il numero delle riforme varate negli ultimi venti anni in Italia, è stato Innocenzo Cipolletta in un’intervista a Dario Di Vico (Corriere della Sera dell’11 giugno scorso). Il presidente di Assonime (l’associazione che raccoglie le società per azioni) , ha elencato «le 12 riforme della giustizia per le imprese, le 7 dell’ordinamento delle crisi d’impresa, le 7 del mercato del lavoro, le 5 del sistema pensionistico, le 9 della tassazione di impresa e almeno 8 della pubblica amministrazione». Ma quale investitore estero vorrebbe mettere i propri soldi in un Paese dalla così irrequieta mania legislativa? Da ogni parte d’italia si guarda a Milano come modello di buona amministrazione. E non è un caso se il 30% degli investimenti stranieri sia concentrato nel capoluogo lombardo. E nel campo immobiliare si arriva addirittura al 48%. Il sindaco Beppe Sala, e questo va a suo onore, sottolinea in ogni occasione che il merito è sì della sua amministrazione, ma anche di quelle che l’hanno preceduta, di qualsiasi colore politico siano state. Il che significa condivisione di principi di base, esame di ciò che è stato fatto nel passato per fare meglio e non per smontare solo a fini propagandistici i progetti precedenti. Che sembra, invece, la cifra amministrativa dell’attuale governo nazionale.