LA «ROSA» DIGITALE VINCE MA IL TERZIARIO HA LE SPINE
Le note lombarde di Bankitalia disegnano una regione all’avanguardia soprattutto per l’accoglienza di Industria 4.0. Ma l’economia dei servizi, dall’export alle fiere, resta indietro La spinta alla ricerca sull’analisi dei territori
La Banca d’italia ha presentato la scorsa settimana a Milano il quaderno sulla Lombardia nell’ambito delle monografie dedicate alle economie regionali. E, come è ormai tradizione, si tratta di un lavoro che stimola successivi approfondimenti e la formulazione di qualche quesito. Tralasciamo in questa sede i risultati di carattere più congiunturale legati all’andamento del Pil regionale e delle esportazioni portandoci dietro casomai un interrogativo di carattere più generale. Ovvero se abbia ancora senso — non solo in questa occasione — paragonare il dopo
Grande crisi con la fase antecedente. Si tratta di due stagioni completamente diverse e ragionare ancora in termini di recupero più o meno ottenuto sui livelli 2008 non è particolarmente utile per definire i compiti di oggi. Ciò vale evidentemente non solo per le «note lombarde» di Bankitalia, ma più in generale per le riflessioni sullo stato dell’economia reale italiana prodotte da diverse agenzie di analisi. Ci sono elementi di discontinuità che andrebbero evidenziati con maggiore coraggio, prendendosi anche qualche rischio.
Fatta questa premessa sono almeno due i temi chiave che meritano un ritorno. Il primo riguarda la trasformazione digitale del sistema delle imprese. Il quaderno non prevede uno specifico capitolo ma fornisce qua e là elementi preziosi per fotografare il cambiamento. Possiamo dire tranquillamente
che la Lombardia è l’epicentro della trasformazione 4.0 (anche se sarebbe di grande interesse poter leggere una comparazione con quanto sta avvenendo in Emilia Romagna): lo testimoniano il 55% di aziende che ha utilizzato il super-ammortamento e il 33% che ha usufruito dell’iper-ammortamento previsti dal Piano Industria 4.0. E forse ancor di più il dato che evidenzia come il 13% delle imprese ha scommesso sulla ruota del 4.0 più del 40% dei propri investimenti totali. Se incrociamo questi elementi con la ricognizione della produttività del lavoro lombarda — del 20% superiore a quella nazionale — il quadro si arricchisce notevolmente. E ancora: la fotografia delle aziende high growth — che potremmo chiamare lepri — chiarisce il carattere decisivo della trasformazione digitale in atto.
La chiave del loro successo il quaderno di Bankitalia la rintraccia infatti nello sfruttamento di una delle tecnologie chiave di questa fase, dalla robotica avanzata alla stampa tridimensionale, dall’intelligenza artificiale al cloud. Il controcanto casomai lo rintracciamo laddove il lavoro presentato a Milano evidenzia impietosamente il persistente disallineamento tra domanda e offerta di conoscenze ovvero un deficit «particolarmente elevato nella preparazione dei lavoratori nel campo dell’ingegneria e della tecnologia». Morale: l’insieme di questi flash ci dà uno spaccato estremamente interessante al quale mi sento solo di aggiungere la presenza sul territorio lombardo di una sorta di distretto delle macchine utensili — ubicato grosso modo tra Milano e Varese — che ha tirato la volata di Industria 4.0 e il cui valore sistemico è ancora largamente sottovalutato. Dagli stabilimenti della manifattura passiamo ai servizi. Ho l’impressione che la comunità lombarda non conceda la dovuta attenzione alla ricognizione della qualità del terziario regionale. Nonostante lo straordinario successo di Milano non si può dire che stiamo vivendo un grande ciclo del terziario come quello che in una fase molto precedente all’attuale concepì la Fiera di Rho, Malpensa e lo sviluppo della sanità privata. Attenzione a confondere il ritmo serrato degli eventi glamour con la qualificazione internazionale di un’offerta di servizi, faremmo lo stesso errore di quanti in città ancora confondono il Salone del Mobile con la movida della settimana che lo ospita. So bene che qualche occasione è sfuggita (l’ema), molti cantieri sono aperti (la legacy dell’area Expo) ma il tono muscolare complessivo del terziario lombardo non è quello a cui potremmo ambire. Non sono così sicuro che in campo fieristico si sia fatto tutto il possibile (penso al campanilismo delle ferie del food che non ci permette di insidiare il primato tedesco dell’anuga di Colonia) e del resto il dato che il quaderno mette in rilievo, e che vede le
Pmi come principale cliente dell’offerta espositiva, qualche traccia la lascia. Se poi scende l’export internazionale di servizi — come l’indagine Bankitalia sostiene — non si può pensare che venga compensato dalla maggiore spesa dei turisti d’affari. Così come è estremamente significativo (purtroppo) che gli investimenti diretti all’estero in uscita siano indirizzati verso holding finanziarie mentre in entrata veda gli stranieri preferire le imprese professionali e tecniche.
Un’ultima considerazione riguarda l’analisi dei territori. Nell’economia dei flussi — e in particolare nel caso del nostro Nord — è sempre più difficile seguire i recinti amministrativi e separare le tendenze della Lombardia da quelle dei territori limitrofi (esempio cult: Novara e Piacenza economicamente sono lombarde più che piemontesi/emiliane), ma un ulteriore elemento di distinzione bisogna farlo in chiave di disparità città-contado.
Detto in altri termini le differenze tra Milano e la Lombardia sono larghe e non ripercorrono solo il solco servizi manifattura, abbracciano altre materie di cui alcune prettamente sociologiche. Forse non è così scandaloso chiedere all’analisi economica uno sforzo per tenerne conto.