RAJAN: IMPRESE, PIÙ VICINE ALLE COMUNITÀ MORATTI: IL WELFARE PORTA SVILUPPO
L’economista ed ex banchiere centrale incrocia nei suoi ultimi studi alcuni temi chiave del nostro dibattito socio-economico, a partire dal «terzo pilastro», le comunità locali, antidoto alla disperazione e al malcontento provocati da Stato e mercato
Il libro di Raghuram Rajan («Il Terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati», Bocconi Editore) sta incontrando un discreto successo in Italia. Innanzitutto per la biografia dell’autore che oggi insegna all’università di Chicago ma dal 2013 al 2016 è stato governatore della Reserve Bank of India meritandosi nel 2014 il premio da parte della rivista Euromoney
di central banker of the year. Rajan era stato dal 2003 al 2006 chief economist del Fondo Monetario Internazionale. Il suo precedente libro («Terremoti finanziari», del 2010) aveva vinto un altro premio: quello organizzato da Financial Times e Goldman Sachs per il miglior libro di business dell’anno. Ma al di là dei riconoscimenti guadagnati negli anni dall’autore, l’interesse italiano per la sua nuova pubblicazione sta nel fatto che incrocia alcuni dei temi-chiavi del nostro dibattito socio-economico. Rajan sostiene che gli economisti limitano troppo spesso il loro campo di riflessione al rapporto tra Stati e mercati, lasciando ad altri le sfuggenti questioni sociali ma in realtà tutta l’economia è socioeconomica. I mercati sono inseriti in una rete di rapporti umani, di norme e di valori. Da qui l’attenzione del banchiere indiano al ripensamento dei rapporti tra mercato e società civile e soprattutto al ruolo delle comunità locali come antidoto alla disperazione e al malcontento. Tutti temi di stringente attualità e che in qualche maniera rappresentano uno stimolo a chiedergli un giudizio sul caso italiano.
L’italia è un Paese a forte tradizioni comunitarie. Adriano Olivetti chiamò «Comunità» il suo movimento politico ma più in generale il locale ha supplito a un deficit di Stato e di Nazione. Nonostante ciò le comunità si sono attirate molto critiche anche di segno opposto perché avrebbero rallentato la modernizzazione. Le reputa critiche ingiuste?
«Credo che le comunità riempiano il vuoto lasciato dallo Stato, sia per quanto compete la formazione delle persone per affrontare il mercato (l’insegnamento di valori e competenze) sia per quanto compete aiutare i cittadini quando Stato e Mercato vengono meno. Per esempio, quando gli aiuti istituzionali come l’assegno di disoccupazione terminano, la comunità fa un passo avanti e si prende cura delle “sue persone”. Ha sempre funzionato in questo modo, ed è positivo. Per questo non condivido le critiche di chi pensa che la società locale debba essere messa da parte in favore dell’azione dello Stato. Il big government perde di vista molte cose e per questo sostengo l’empowerment delle comunità locali, capaci sia di restituire alle persone un maggior senso di partecipazione sia di riempire i buchi dell’azione centrale. Se i critici di cui parla disconoscono questi valori credo che sbaglino».
Il Novecento italiano ha conosciuto una grande forza da parte delle associazioni di rappresentanza degli interessi, impresa e lavoro. Che hanno dato vita a forme innovative di governo come la concertazione. Ora le cose sono cambiate nei rapporti di lavoro il sindacato è meno rappresentativo, la Confindustria fatica e la supplenza della politica è finita. Pensa che sia un bene e che di conseguenza il comunitarismo italiano debba essere reinventato nella chiave del XXI secolo?
«Credo che come gli sviluppi tecnologici stanno alterando il mondo del lavoro, così anche le strutture sociali devono cambiare. Come lei riconosce, i sindacati sono meno rappresentativi. Forse abbiamo bisogno di nuove strutture per i nuovi tipi di lavoro, come gli Uber drivers o i lavoratori part time, che stanno emergendo. Società e comunità devono adattarsi al cambiamento tecnologico, ed è proprio la mancanza di questo adattamento che causa uno stato d’ansia».
Il movimento del no profit e del volontariato in Italia viene chiamato terzo settore e ricorda un po’ il titolo del suo libro “Il terzo pilastro”. Spicca all’interno nel no profit la forza delle fondazioni ex bancarie. La conosce? E cosa ne pensa? Che paragoni si possono fare con altri Paesi?
«Il settore no profit è solo uno degli elementi del terzo pilastro. I governi locali come le strutture sociali, per esempio la famiglia, il paesino e la chiesa sono le altre parti. Nei diversi paesi la forza di ciascuno di questi elementi è differente. Il punto principale è che riescono a colmare il vuoto lasciato dal governo centrale e dal mercato».
L’italia è un Paese in cui sono forti i distretti industriali ed è preponderante la presenza di piccole e medie imprese. Ma la ridotta dimensione delle imprese, nate molto a ridosso della società e delle comunità locali, oggi viene considerata un handicap dello sviluppo italiano. Cosa ne pensa?
«Con la moderna tecnologia, le industrie di larga scala sono diventate più facili da gestire e spesso più efficienti. Allo stesso tempo è possibile anche per le piccole aziende usare la tecnologia per far parte di un network più grande. Le piccole aziende non sono interamente inefficienti, dipende dal settore in cui sono. Penso che la chiave si trovi nel trovare la dimensione adatta per il settore specifico. Le imprese italiane devono adattarsi e ce ne sono alcune che hanno fatto un ottimo lavoro. Vedo la loro vicinanza alle comunità come una forza e non come una debolezza ma enfatizzerei il loro bisogno di adattarsi alla tecnologia e alla competizione. Cito la famosa battuta di Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”: “Se vogliamo che le cose rimangano come sono, le cose dovranno cambiare”». Il fatto che un libro sulle comunità venga da un economista che oggi lavora a Chicago, la capitale intellettuale dei boys liberisti ha destato curiosità da noi. È una vittoria dei sociologi e degli antropologi sugli economisti freddi e cinici?
«Gli economisti non sono freddi e cinici, sono realisti. La comunità è una realtà, sia nei suoi aspetti positivi sia in quelli negativi. Gli economisti sono andati oltre i mercati e lo Stato da diversi anni — si pensi al lavoro di Gary Becker sul capitale umano. Sto semplicemente seguendo questa scia. Ma ho imparato molto da sociologi e antropologi, e sto cercando di portare un po’ di elementi di economia all’apprendimento che ho avuto!».
Le aziende italiane devono adattarsi e ce ne sono alcune che hanno fatto un ottimo lavoro I sindacati sono meno rappresentativi Abbiamo bisogno di nuove strutture per i nuovi tipi di lavoro