ORA TRUMP RISCHIA UN CLAMOROSO AUTOGOL
Il venir meno degli effetti del taglio delle tasse e le continue tensioni con la Cina rischiano di rallentare la crescita. La spesa per le infrastrutture non basta
Iquattro cavalieri della politica macroeconomica statunitense sono da tempo tassazione, regolamentazione, commercio e infrastrutture. Avendo studiato la prima area a fondo, ho riscontrato che gli sgravi fiscali contribuiscono positivamente alla crescita economica. Riguardo alla regolamentazione, l’evidenza suggerisce che essa apporta, nel migliore dei casi, un contributo solo minimo. La terza area è molto importante e spiega come mai le tensioni odierne sul fronte commerciale destino tanta preoccupazione. L’ultima, infine, esiste soltanto nella retorica, e attualmente un programma di infrastrutture non fa parte del repertorio della politica macroeconomica.
Riguardo alla tassazione, stimo che la riforma fiscale del 2017 abbia incrementato dell’1,1% annuo il tasso di crescita del Pil statunitense negli anni 2018-2019. Di tale incremento, 0,9 punti percentuali sono una conseguenza della riduzione dell’aliquota fiscale sulle persone fisiche, mentre 0,2 punti arrivano dal taglio dei tassi e da migliori disposizioni sulla deducibilità per le imprese. Mentre si prevede che l’effetto positivo degli sgravi fiscali per le persone fisiche non proseguirà oltre il 2019, l’impatto della riforma della fiscalità societaria sulla crescita è destinato a perdurare per un certo periodo di tempo. Passando al secondo cavaliere, da alcuni indizi emerge che l’espansione dei poteri normativi federali abbia cominciato a ridursi, dopo un lungo periodo di crescita. Dal 2017, Regdata, un dataset che rintraccia le parole relative ai vincoli sulle attività economiche nel Registro Federale, mostra una stabilizzazione dei nuovi regolamenti. L’onere normativo sull’attività imprenditoriale ed economica ha smesso di crescere, ma non è in diminuzione.
Allo stesso modo, il profilo Doing Business per gli Stati Uniti, un progetto della Banca mondiale che offre una misura più ampia della regolamentazione governativa in base a una media di dieci indicatori, non evidenzia progressi recenti. Nella classifica mondiale, gli Usa sono passati dall’ottavo posto nel 2016 al sesto nel 2017, per poi tornare all’ottavo nel 2018.
Come molti altri economisti hanno osservato, le politiche commerciali del presidente americano Donald Trump sono fonte di notevole preoccupazione. L’agenda commerciale dell’amministrazione è guidata dall’idea mercantilista, ormai screditata, che la vendita di beni (export) sia una cosa buona, mentre il loro acquisto (import) no. Ironicamente, Trump e alcuni dei suoi consiglieri economici più accreditati condividono questa visione distorta con i cinesi.
In realtà, l’amministrazione Trump ha ragione quando dice che la Cina limita da tempo le importazioni e gli investimenti stranieri (mentre s’impegna nel furto di tecnologia, sia direttamente
sia mediante l’obbligo di trasferimento). Ma lo scontro a colpi di dazi sulle importazioni tra gli Usa e la Cina nuoce a entrambi i paesi. Per molti questa guerra commerciale danneggerà più la Cina che gli Stati Uniti, dal momento che la prima esporta di più verso l’america che non viceversa. Ma la perdita di importazioni cinesi comporterà un onere maggiore per l’economia Usa. Il problema più ampio è che Trump sembra avere una particolare attrazione per i dazi, un po’ perché pensa che essi aumentino le entrate, un po’ perché crede che facciano aumentare il Pil (frenando le importazioni, che vengono poi magicamente sostituite dalla produzione interna). Questa sfida non ammette una soluzione facile. La speranza, adesso, è che questi dazi reciprocamente dannosi portino a un accordo in base al quale la Cina liberalizzerà le proprie politiche commerciali, dopo di che le barriere all’importazione saranno rimosse. Ma sebbene ciò — per aggiungere ironia all’ironia — avvantaggerebbe più la Cina che gli Stati Uniti, la situazione è tesa e l’incertezza dell’esito finale alimenta la volatilità dei mercati azionari globali. E comunque vada a finire con la Cina, resta la preoccupazione che Trump imponga dazi a Messico, Europa, Giappone e così via.
Per quanto concerne le infrastrutture, i potenziali vantaggi per la produttività statunitense derivanti da un aumento degli investimenti nel settore sono reali. Eppure, non è accaduto nulla. La situazione è ben sintetizzata da una riunione tenutasi lo scorso aprile tra Trump e alcuni leader del Congresso. Trump avrebbe aperto le danze proponendo d’investire mille miliardi di dollari, i Democratici avrebbero rilanciato con il doppio della cifra, al che Trump avrebbe acconsentito senza quasi esitare. Tutto considerato, lo scambio conferma, ancora una volta, che entrambe le parti considerano ormai la spesa pubblica come un regalo, almeno quando è finanziata dal debito o dalla creazione di nuova moneta.
Data la situazione della politica macroeconomica statunitense, non sorprende che l’ultimo rapporto della Federal Reserve Bank of Atlanta preveda una crescita del Pil nel secondo trimestre pari all’1,3%, in discesa rispetto al 3,1% del primo trimestre. La riforma fiscale del 2017 continuerebbe a promuovere la crescita economica, se non fosse per l’inasprirsi delle tensioni commerciali. Purtroppo, un tasso di crescita vicino al 3% per il 2019 appare sempre più improbabile.
Comunque vada a finire con Pechino, resta la preoccupazione che The Donald imponga dazi a Messico, Europa, e Giappone...
Traduzione di Federica Frasca *Docente di economia all’università di Harvard ©Project Syndicate, 2019. www.project-syndicate.org