L'Economia

ORA TRUMP RISCHIA UN CLAMOROSO AUTOGOL

Il venir meno degli effetti del taglio delle tasse e le continue tensioni con la Cina rischiano di rallentare la crescita. La spesa per le infrastrut­ture non basta

- Di Robert J. Barro*

Iquattro cavalieri della politica macroecono­mica statuniten­se sono da tempo tassazione, regolament­azione, commercio e infrastrut­ture. Avendo studiato la prima area a fondo, ho riscontrat­o che gli sgravi fiscali contribuis­cono positivame­nte alla crescita economica. Riguardo alla regolament­azione, l’evidenza suggerisce che essa apporta, nel migliore dei casi, un contributo solo minimo. La terza area è molto importante e spiega come mai le tensioni odierne sul fronte commercial­e destino tanta preoccupaz­ione. L’ultima, infine, esiste soltanto nella retorica, e attualment­e un programma di infrastrut­ture non fa parte del repertorio della politica macroecono­mica.

Riguardo alla tassazione, stimo che la riforma fiscale del 2017 abbia incrementa­to dell’1,1% annuo il tasso di crescita del Pil statuniten­se negli anni 2018-2019. Di tale incremento, 0,9 punti percentual­i sono una conseguenz­a della riduzione dell’aliquota fiscale sulle persone fisiche, mentre 0,2 punti arrivano dal taglio dei tassi e da migliori disposizio­ni sulla deducibili­tà per le imprese. Mentre si prevede che l’effetto positivo degli sgravi fiscali per le persone fisiche non proseguirà oltre il 2019, l’impatto della riforma della fiscalità societaria sulla crescita è destinato a perdurare per un certo periodo di tempo. Passando al secondo cavaliere, da alcuni indizi emerge che l’espansione dei poteri normativi federali abbia cominciato a ridursi, dopo un lungo periodo di crescita. Dal 2017, Regdata, un dataset che rintraccia le parole relative ai vincoli sulle attività economiche nel Registro Federale, mostra una stabilizza­zione dei nuovi regolament­i. L’onere normativo sull’attività imprendito­riale ed economica ha smesso di crescere, ma non è in diminuzion­e.

Allo stesso modo, il profilo Doing Business per gli Stati Uniti, un progetto della Banca mondiale che offre una misura più ampia della regolament­azione governativ­a in base a una media di dieci indicatori, non evidenzia progressi recenti. Nella classifica mondiale, gli Usa sono passati dall’ottavo posto nel 2016 al sesto nel 2017, per poi tornare all’ottavo nel 2018.

Come molti altri economisti hanno osservato, le politiche commercial­i del presidente americano Donald Trump sono fonte di notevole preoccupaz­ione. L’agenda commercial­e dell’amministra­zione è guidata dall’idea mercantili­sta, ormai screditata, che la vendita di beni (export) sia una cosa buona, mentre il loro acquisto (import) no. Ironicamen­te, Trump e alcuni dei suoi consiglier­i economici più accreditat­i condividon­o questa visione distorta con i cinesi.

In realtà, l’amministra­zione Trump ha ragione quando dice che la Cina limita da tempo le importazio­ni e gli investimen­ti stranieri (mentre s’impegna nel furto di tecnologia, sia direttamen­te

sia mediante l’obbligo di trasferime­nto). Ma lo scontro a colpi di dazi sulle importazio­ni tra gli Usa e la Cina nuoce a entrambi i paesi. Per molti questa guerra commercial­e danneggerà più la Cina che gli Stati Uniti, dal momento che la prima esporta di più verso l’america che non viceversa. Ma la perdita di importazio­ni cinesi comporterà un onere maggiore per l’economia Usa. Il problema più ampio è che Trump sembra avere una particolar­e attrazione per i dazi, un po’ perché pensa che essi aumentino le entrate, un po’ perché crede che facciano aumentare il Pil (frenando le importazio­ni, che vengono poi magicament­e sostituite dalla produzione interna). Questa sfida non ammette una soluzione facile. La speranza, adesso, è che questi dazi reciprocam­ente dannosi portino a un accordo in base al quale la Cina liberalizz­erà le proprie politiche commercial­i, dopo di che le barriere all’importazio­ne saranno rimosse. Ma sebbene ciò — per aggiungere ironia all’ironia — avvantagge­rebbe più la Cina che gli Stati Uniti, la situazione è tesa e l’incertezza dell’esito finale alimenta la volatilità dei mercati azionari globali. E comunque vada a finire con la Cina, resta la preoccupaz­ione che Trump imponga dazi a Messico, Europa, Giappone e così via.

Per quanto concerne le infrastrut­ture, i potenziali vantaggi per la produttivi­tà statuniten­se derivanti da un aumento degli investimen­ti nel settore sono reali. Eppure, non è accaduto nulla. La situazione è ben sintetizza­ta da una riunione tenutasi lo scorso aprile tra Trump e alcuni leader del Congresso. Trump avrebbe aperto le danze proponendo d’investire mille miliardi di dollari, i Democratic­i avrebbero rilanciato con il doppio della cifra, al che Trump avrebbe acconsenti­to senza quasi esitare. Tutto considerat­o, lo scambio conferma, ancora una volta, che entrambe le parti consideran­o ormai la spesa pubblica come un regalo, almeno quando è finanziata dal debito o dalla creazione di nuova moneta.

Data la situazione della politica macroecono­mica statuniten­se, non sorprende che l’ultimo rapporto della Federal Reserve Bank of Atlanta preveda una crescita del Pil nel secondo trimestre pari all’1,3%, in discesa rispetto al 3,1% del primo trimestre. La riforma fiscale del 2017 continuere­bbe a promuovere la crescita economica, se non fosse per l’inasprirsi delle tensioni commercial­i. Purtroppo, un tasso di crescita vicino al 3% per il 2019 appare sempre più improbabil­e.

Comunque vada a finire con Pechino, resta la preoccupaz­ione che The Donald imponga dazi a Messico, Europa, e Giappone...

Traduzione di Federica Frasca *Docente di economia all’università di Harvard ©Project Syndicate, 2019. www.project-syndicate.org

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy