MATTEO E LE TASSE LA LEZIONE AMERICANA TAGLIARESIPUÒ
direzione della riforma fiscale. Nel caso statunitense, il piatto forte era il passaggio dell’aliquota della imposizione sulle società dal 35% al 21%, assai più che non la marginale revisione delle aliquote personali. Per quanto riguarda l’imposta sulle persone giuridiche, noi siamo già al 24% (e ci muoviamo verso il 20,5% in funzione delle modalità di gestione degli utili). Difficile pensare che sia questo il punto.
Il modello Usa
Rimane allora l’altra questione: le modalità di copertura. Secondo le valutazioni (datate 2017) del Congressional Budget Office, la riforma fiscale americana avrebbe comportato incrementi del disavanzo pubblico valutati, su un arco di tempo decennale, in circa 1.500 miliardi di dollari. Ora, nelle valutazioni del Fondo monetario internazionale il rapporto fra debito pubblico e Prodotto interno lordo statunitense – pari al 106,2% a fine 2017 – si attesta oggi al 106,9 per cento. Almeno per il momento, se qualcosa insegna l’esperienza statunitense è che il debito non si cura con il debito. Ma c’è, forse, di più. Ci sono parecchi buoni motivi — del tutto indipendenti dalle regole europee — per pensare che nel caso italiano l’impatto sui livelli di attività di una significativa riduzione delle imposte finanziata in disavanzo sarebbe tanto ridotto da far pensare che il gioco potrebbe non valere la candela. Primo, gli Stati Uniti sono una grande economia chiusa, mentre l’italia è una piccola economia aperta. Il grado di apertura dell’economia statunitense è circa la metà del nostro. Traduzione: ogni manovra espansiva in disavanzo si traduce in maggiori importazioni dai nostri principali partner commerciali e sostiene i loro livelli di attività oltre che i nostri. Il segretario della Lega suole dire che «vogliamo usare i soldi degli italiani per gli italiani». Non è esattamente così. Come è già accaduto, per esempio, nel 2014 con i famosi «80 euro», con una manovra espansiva in disavanzo useremmo i soldi degli italiani (che verranno) per gli italiani (che ci sono), per i tedeschi, per i francesi, e così via. Chi sostiene che il ministro dell’interno non conosce il significato della parola «solidarietà» si deve ricredere: ci stiamo preparando a uno straordinario atto di generosità: sostenere con le risorse delle generazioni italiane future i livelli di attività
Charles Wyplosz su «lavoce.info» («Un economista nel paese delle meraviglia», 18 giugno 2019) riporta che negli ultimi sessant’anni il tasso di crescita reale sarebbe stato maggiore del tasso reale di interesse in sei casi su dieci. Solo in un caso su dieci nel caso italiano. Non dovrebbe stupire il leggero nervosismo che gli investitori tendono a manifestare di fronte ad un debito italiano crescente (né dovrebbe stupire il fatto che possano chiedere di essere remunerati per quel nervosismo). In breve, diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, una manovra espansiva in disavanzo ha in Italia significative probabilità di innescare incrementi nei tassi di interesse che ne ridurrebbero considerevolmente l’impatto fino, forse, ad annullarlo. Terzo, diversamente da quanto accade negli Stati Uniti dove gli indicatori di incertezza della politica economica sono tornati ai livelli più bassi dell’ultimo decennio, in Italia l’incertezza regna ancora sovrana. Non siamo ai livelli sperimentati sul finire del 2011 ma non siamo poi da loro così lontani. In queste condizioni, «mettere i soldi nelle tasche degli italiani» può semplicemente indurre gli italiani a lasciarli lì, almeno in buona parte. Anche perché non si può escludere che qualcuno prima o poi finisca per richiederli.
Proposte e cortigiani
Ogni manovra espansiva in disavanzo si traduce in maggiori acquisti dai nostri principali partner commerciali
Se, come da più parti si comincia a pensare, l’ue va verso una fase più o meno severa di rallentamento ciclico e se — come ci viene spesso ricordato — il governo italiano mira a un cambiamento delle regole europee, sarebbe sensato disegnare una riforma fiscale complessiva associata a significativi tagli di spesa (ivi incluse le spese fiscali), presentarsi in Europa con i conti (veramente) in ordine (sia per quanto riguarda i flussi che gli stock) e porre il tema di uno spazio europeo per le politiche anticicliche. L’unico veramente in grado di fare la differenza. Per noi, forse, più che per gli altri. Uno spazio che c’è ma solo in astratto, per il momento. Elemosinare un po’ di flessibilità addizionale per poi tradurla in interventi inefficaci — qualcosa che abbiamo già sperimentato — è l’atteggiamento di chi di cambiare le regole europee non ha la minima voglia e punta semplicemente a rinviare i problemi. I nostri, mentre gli altri i loro li affrontano. I leader politici non sono tuttologi. È del tutto comprensibile che mastichino poco di economia così come di altro. Quando ciò accade, è essenziale però che siano in grado di capire se le soluzioni che vengono loro prospettate sono il frutto di una riflessione e di una valutazione distaccata o, piuttosto, la conseguenza di attitudini cortigiane e di riflessioni non sempre molto informate.
Brillanti carriere politiche sono finite nel nulla per molto meno.
Diversamente dagli Usa, in Italia un aumento del deficit ha buone probabilità d’innescare il rialzo dei saggi d’interesse