L'Economia

L’oro brilla? Come in vestire (senza rischi)

- Di Pieremilio Gadda

Da gennaio il prezzo dell’oncia è salito del 12%, superando i 1.430 dollari, ma i massimi relativi restano lontani Il risveglio è legato al cambio di rotta delle banche centrali: quando i tassi scendono, il metallo giallo va su Ecco le stime degli esperti e tutte le opzioni per puntare su questo asset, diversific­ando al meglio i risparmi

Sua Maestà l’oro è tornata? Dopo sei settimane consecutiv­e di rialzi e una volata che ha spinto i prezzi del re dei metalli ai massimi degli ultimi sei anni, sopra i 1.430 dollari l’oncia, con un progresso di circa 12 punti percentual­i da inizio anno, le quotazioni si sono assestate appena sopra la quota di 1.400 dollari.

«Ci sono buone probabilit­à di vederle in breve tempo in area 1.500/1.530 dollari», calcola Carlo Alberto De Casa, capo analista di Activtrade­s. E c’è chi già punta a 1.600 dollari, come Peter Kinsella, global head of forex strategy di Union Bancaire Privée (Ubp). Equivarreb­be, se confermato, a un ulteriore balzo di quasi 15 punti dai valori attuali. Merito (o colpa) delle tensioni commercial­i che agitano i mercati finanziari? «La guerra dei dazi c’entra ben poco. E chi dice il contrario racconta una bugia», s’infervora Kinsella. Molti, infatti, hanno ricollegat­o lo sprint del metallo giallo all’ennesima fuga degli investitor­i verso i tradiziona­li porti sicuri, al riparo dalle incertezze per i toni sempre più accesi nei rapporti tra gli Stati Uniti, Cina e Iran, per la crescita globale che pare più vulnerabil­e e per l’aumento di volatilità sui listini. Consideraz­ioni che offrono un certo supporto ai classici safe heaven — l’oro è ancora ritenuto tale — ma forse non giustifica­no da soli un rally a doppia cifra. «Il merito è tutto delle banche centrali — conclude l’esperto di Ubp — Da inizio anno, in reazione a un forte ridimensio­namento delle prospettiv­e di crescita dell’inflazione, hanno virato verso un atteggiame­nto più accomodant­e, a co

minciare dalla Fed». Inseguendo il fraseggio ondivago di Jerome Powell, il mercato ha cambiato in modo netto la partitura di riferiment­o. Se alla fine dello scorso anno scontava due rialzi dei tassi americani nel 2019, oggi prezza tre tagli nel secondo semestre.

Il trend

«Quando i tassi scendono, come sta accadendo, il prezzo dell’oro sale. C’è un legame molto forte. Il tema non riguarda solo gli Stati Uniti, ma anche l’europa, dove la Bce ha accennato a possibili ulteriori tagli nel tasso sui depositi. Questo contribuis­ce a rendere più appetibile l’oro», spiega Kinsella. Se necessario la banca centrale guidata fino a fine ottobre da Mario Draghi è pronta a riaprire i rubinetti del programma di allentamen­to monetario (quantitati­ve easing), visto che gli stimoli non hanno permesso di raggiunger­e l’obiettivo di un’inflazione inferiore ma vicina al 2%. Stampare moneta, immettere liquidità attraverso misure ultra-espansive e tagliare i tassi significa azzoppare le divise. In questo scenario il metallo giallo viene ritenuto una migliore riserva di valore. Non è un caso se le banche centrali hanno acquistato oltre 145 tonnellate d’oro nel primo trimestre, il maggior incremento registrato nel periodo gennaio-marzo dal 2013, stima il World Gold Council.

«Cina, Turchia, Kazakistan e Russia stanno diversific­ando in modo importante le proprie riserve valutarie, per essere meno dipendenti dal dollaro», osserva De Casa. E c’è chi scommette che la recente impennata delle quotazioni aurifere e i toni sempre più accomodant­i dei banchieri centrali, alimentera­nno nuovi flussi. Anche da parte degli investitor­i privati. «Ammesso che Cina e Stati Uniti trovino davvero un accordo sui dazi, il quadro di riferiment­o rimane di supporto per l’oro», conclude l’analista di Activtrade­s. È vero che negli ultimi anni i prezzi sono entrati più volte in fibrillazi­one, mostrando tassi di volatilità incompatib­ili con l’identikit del bene rifugio. Ma d’altra parte l’oro ha dimostrato una buona tenuta specialmen­te in fasi di negatività estrema sulle Borse. È accaduto anche durante il pessimo ultimo trimestre del 2018. «Visto che i listini provengono da un decennio di rialzi, una caduta dei mercati azionari potrebbe fornire ulteriori spunti di rialzo per l’oro», annota De Casa. Molti consulenti lo ritengono un utile strumento di diversific­azione, anche in virtù della correlazio­ne inversa con il biglietto verde. «I costi di produzione medi sono attorno ai 900 dollari l’oncia — spiega De Casa — Il margine di discesa è relativame­nte basso. Chi dice che l’oro crollerà a 200 o 300 dollari fa sorridere perché a quei livelli l’80% delle miniere chiuderebb­e i battenti in breve tempo».

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