L'Economia

L’ITALIA REALE ATTRAE INVESTIMEN­TI L’ITALIA POLITICA NO

Senza è difficile crescere Ma il governo a volte non sembra consapevol­e

- di Ferruccio de Bortoli e Carlo Cinelli

C’è poco da fare. Ai Cinque Stelle l’industria non piace. E quando è grande suscita qualche distinguo fra gli stessi leghisti che della piccola e media impresa si ergono a paladini. Se poi è una multinazio­nale il sospetto è crescente. Irresistib­ile. Quasi fossero, gli investitor­i esteri, ospiti tollerati o invasori mal sopportati. La tormentata vicenda Ilva è esemplare. Arcelormit­tal ha investito nel centro siderurgic­o di Taranto più di quattro miliardi. E lo ha fatto anche nella ragionevol­e certezza che i propri manager non sarebbero stati chiamati a rispondere civilmente o penalmente di quanto accaduto in precedenza. In caso contrario non si sarebbe mai infilata nel «buco nero», anche legale, dello stabilimen­to pugliese. Qualsiasi società seria, in tutto il mondo, preferisce non correre un rischio che non è stimabile. L’avvocatura dello Stato, richiesta di un parere dallo stesso ministro dello Sviluppo economico, nonché vice premier, Luigi Di Maio, si era espressa per una proroga dell’esimente penale dal 2019 al 2023. Ci auguriamo che il 6 settembre lo stabilimen­to ex Ilva non chiuda. Non solo per salvaguard­are i posti di lavoro, difendere il resto dell’industria italiana oltre che le scarse speranze di crescita dell’economia. Ma anche e soprattutt­o per dimostrare a tutti che uno straccio di certezza del diritto permane nonostante l’umore antindustr­iale grillino, le amnesie leghiste e la confusione legislativ­a.

Contraddiz­ioni

La schizofren­ia italica sorprende. Mettiamola così: se le multinazio­nali italiane, che per fortuna non sono poche, avessero nei mercati esteri in cui investono un trattament­o simile, se ne sarebbero già andate. Strano Paese il nostro. Viviamo di industria, ma non la vogliamo sotto casa. Esaltiamo il chilometro zero, ma siamo giustament­e orgogliosi di una filiera alimentare che esporta. Anche all’altro capo del globo. E vende a consumator­i esteri che, grazie a Dio, non vanno pazzi per il loro chilometro zero. Demonizzia­mo i termovalor­izzatori, ma spendiamo centinaia di milioni per esportare i rifiuti creando lavoro e reddito altrove. L’elenco potrebbe continuare.

Senza investimen­ti dall’estero non si cresce. Inutile porsi la questione della nazionalit­à delle aziende quando non vi sono imprendito­ri o gruppi italiani con mezzi e competenze adeguati. Salvo affidarsi ad avventurie­ri o ad aziende fragili. Inutile pensare che il modello Alitalia — perdere soldi a danno dei contribuen­ti — sia la soluzione vincente per lo sviluppo. È la rotta del declino. Conta la serietà dell’impresa, il livello della ricerca, lo sbocco sui mercati internazio­nali. Un marchio del made in Italy è più garantito in un gruppo estero che produca in Italia piuttosto che nelle mani gracili di un italiano pronto a delocalizz­are la fabbrica in Romania. E per far sì che lavoro, progettazi­one, ricerca rimangano, nel limite del possibile, in Italia, indipenden­temente dalla nazionalit­à degli azionisti, è necessario un governo credibile, Regioni attente, amministra­zioni serie. E soprattutt­o rule of law. I contratti valgono al di là dei governi.

Lasciamo per un attimo da parte i casi Whirlpool, Embraco, ecc. Anche gli stranieri si comportano male. Qualche volta ne approfitta­no. All’esame del ministero ci sono comunque 230 situazioni di crisi. Le imprese a capitale estero erano nel 2016, secondo gli ultimi dati Istat, 14 mila 600. Nel settore manifattur­iero costituiva­no il 33,8 per cento di quelle definite grandi, con più di 250 addetti. Meno nelle costruzion­i (11,3 per cento); un po’ più nei servizi (20,4%). Un terzo degli addetti nell’industria manifattur­iera italiana lavora

per un azionista estero. Nel complesso 1,3 milioni di persone, valore che ha superato il picco del periodo pre crisi. Profession­alità apprezzate, purtroppo rare da trovare se non nei territori più competitiv­i che attraggono investimen­ti proprio per la presenza di ecosistemi virtuosi, spesso di qualità superiore ad analoghe zone di Francia e Germania.

Le cifre

Nel 2018 il flusso di investimen­ti diretti dall’estero è cresciuto nonostante le incertezze politiche. Oltre 24 miliardi di dollari, il 10 per cento in più. Mentre nell’unione europea scendevano del 55 per cento.e del 13 per cento a livello globale. Guardando questi dati si potrebbe dire che l’italia resiste. Addirittur­a è in controtend­enza. Dunque, che problema c’è? Ma è anche vero che i progetti sono pluriennal­i. Le decisioni maturate lo scorso anno sono state prese in tempi diversi. Anni indietro. «Il rischio — dice Eugenio Sidoli, presidente di Philip Morris Italia e coordinato­re del Comitato investitor­i esteri di Confindust­ria — è che l’incertezza induca molti a rivedere i propri piani. Disinvesti­re dall’italia per uno straniero è molto più facile che per un’azienda italiana. Le imprese, tutte, devono essere competitiv­e. E avere certezze nel tempo. Soprattutt­o confidare su collaborat­ori di qualità. La merce più rara in tutte le regioni sono le competenze di cui ha bisogno l’industria 4.0. i digital maker, profili che l’italia fatica a formare».

I nostri concorrent­i sono molto attivi nel tentare di convincere le multinazio­nali presenti in Italia, e non solo, ad andarsene. Sarebbe il caso di non aiutarli, anche con dichiarazi­oni improvvisa­te e irresponsa­bili. Sono sempre più frequenti le delegazion­i di Paesi e Regioni che offrono incentivi fiscali, e non, per attrarre investimen­ti. Tra i Paesi più attivi: Francia e Spagna. Molto più dell’est Europa. I vantaggi che sono difficilme­nte replicabil­i sono altri: i cluster di eccellenza, fatti di flessibili­tà intelligen­te, vivacità innovativa, cultura industrial­e sedimentat­a nel tempo. Questo spiega, per esempio, la crescita superiore alle più rosee previsioni, degli investimen­ti esteri diretti in Lombardia ed Emilia Romagna. «Bisogna promuovere meglio le filiere virtuose dei territori e ne abbiamo tante — aggiunge Sidoli — assicurare una migliore formazione tecnica alle richieste di industria 4.0, recuperare sul piano della digitalizz­azione del Paese e affrontare i nodi della fiscalità». Ma l’attività più importante è oggi proteggere gli investimen­ti di chi ha creduto nel Paese, lavorare sulla retention, ovvero fidelizzaz­ione, che può essere rafforzata con intese con le Regioni». Il Comitato investitor­i esteri di Confindust­ria ha avviato la sottoscriz­ione di protocolli con le Regioni per migliorare il presidio degli investimen­ti. Il primo firmato è con la Toscana. In preparazio­ne: Emilia-romagna, Lazio e Campania. Puglia non pervenuta. I territori più industrial­izzati sanno che cosa vuole dire avere grandi imprese multinazio­nali. Sono attenti alla sostanza dei rapporti. Vogliono attrarre altri investitor­i. Sanno che così per i loro cittadini si aprono opportunit­à globali. Peccato che a livello nazionale la sensibilit­à sia minore. A volte persino assente. Gli investimen­ti esteri pesano in Italia il 21% del Pil contro il 46% della Spagna che, non a caso, cresce a un ritmo invidiabil­e.

Bisogna promuovere le filiere virtuose dei territori, assicurare una migliore formazione tecnica, recuperare sul piano della digitalizz­azione, sciogliere i nodi della fiscalità

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Corrado Passera banchiere, amministra­tore delegato di Illimity
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Governo Giuseppe Conte, primo ministro della maggioranz­a pentastell­ata. Ai grillini l’industria non piace, la Lega ha molte amnesie

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