L’ITALIA REALE ATTRAE INVESTIMENTI L’ITALIA POLITICA NO
Senza è difficile crescere Ma il governo a volte non sembra consapevole
C’è poco da fare. Ai Cinque Stelle l’industria non piace. E quando è grande suscita qualche distinguo fra gli stessi leghisti che della piccola e media impresa si ergono a paladini. Se poi è una multinazionale il sospetto è crescente. Irresistibile. Quasi fossero, gli investitori esteri, ospiti tollerati o invasori mal sopportati. La tormentata vicenda Ilva è esemplare. Arcelormittal ha investito nel centro siderurgico di Taranto più di quattro miliardi. E lo ha fatto anche nella ragionevole certezza che i propri manager non sarebbero stati chiamati a rispondere civilmente o penalmente di quanto accaduto in precedenza. In caso contrario non si sarebbe mai infilata nel «buco nero», anche legale, dello stabilimento pugliese. Qualsiasi società seria, in tutto il mondo, preferisce non correre un rischio che non è stimabile. L’avvocatura dello Stato, richiesta di un parere dallo stesso ministro dello Sviluppo economico, nonché vice premier, Luigi Di Maio, si era espressa per una proroga dell’esimente penale dal 2019 al 2023. Ci auguriamo che il 6 settembre lo stabilimento ex Ilva non chiuda. Non solo per salvaguardare i posti di lavoro, difendere il resto dell’industria italiana oltre che le scarse speranze di crescita dell’economia. Ma anche e soprattutto per dimostrare a tutti che uno straccio di certezza del diritto permane nonostante l’umore antindustriale grillino, le amnesie leghiste e la confusione legislativa.
Contraddizioni
La schizofrenia italica sorprende. Mettiamola così: se le multinazionali italiane, che per fortuna non sono poche, avessero nei mercati esteri in cui investono un trattamento simile, se ne sarebbero già andate. Strano Paese il nostro. Viviamo di industria, ma non la vogliamo sotto casa. Esaltiamo il chilometro zero, ma siamo giustamente orgogliosi di una filiera alimentare che esporta. Anche all’altro capo del globo. E vende a consumatori esteri che, grazie a Dio, non vanno pazzi per il loro chilometro zero. Demonizziamo i termovalorizzatori, ma spendiamo centinaia di milioni per esportare i rifiuti creando lavoro e reddito altrove. L’elenco potrebbe continuare.
Senza investimenti dall’estero non si cresce. Inutile porsi la questione della nazionalità delle aziende quando non vi sono imprenditori o gruppi italiani con mezzi e competenze adeguati. Salvo affidarsi ad avventurieri o ad aziende fragili. Inutile pensare che il modello Alitalia — perdere soldi a danno dei contribuenti — sia la soluzione vincente per lo sviluppo. È la rotta del declino. Conta la serietà dell’impresa, il livello della ricerca, lo sbocco sui mercati internazionali. Un marchio del made in Italy è più garantito in un gruppo estero che produca in Italia piuttosto che nelle mani gracili di un italiano pronto a delocalizzare la fabbrica in Romania. E per far sì che lavoro, progettazione, ricerca rimangano, nel limite del possibile, in Italia, indipendentemente dalla nazionalità degli azionisti, è necessario un governo credibile, Regioni attente, amministrazioni serie. E soprattutto rule of law. I contratti valgono al di là dei governi.
Lasciamo per un attimo da parte i casi Whirlpool, Embraco, ecc. Anche gli stranieri si comportano male. Qualche volta ne approfittano. All’esame del ministero ci sono comunque 230 situazioni di crisi. Le imprese a capitale estero erano nel 2016, secondo gli ultimi dati Istat, 14 mila 600. Nel settore manifatturiero costituivano il 33,8 per cento di quelle definite grandi, con più di 250 addetti. Meno nelle costruzioni (11,3 per cento); un po’ più nei servizi (20,4%). Un terzo degli addetti nell’industria manifatturiera italiana lavora
per un azionista estero. Nel complesso 1,3 milioni di persone, valore che ha superato il picco del periodo pre crisi. Professionalità apprezzate, purtroppo rare da trovare se non nei territori più competitivi che attraggono investimenti proprio per la presenza di ecosistemi virtuosi, spesso di qualità superiore ad analoghe zone di Francia e Germania.
Le cifre
Nel 2018 il flusso di investimenti diretti dall’estero è cresciuto nonostante le incertezze politiche. Oltre 24 miliardi di dollari, il 10 per cento in più. Mentre nell’unione europea scendevano del 55 per cento.e del 13 per cento a livello globale. Guardando questi dati si potrebbe dire che l’italia resiste. Addirittura è in controtendenza. Dunque, che problema c’è? Ma è anche vero che i progetti sono pluriennali. Le decisioni maturate lo scorso anno sono state prese in tempi diversi. Anni indietro. «Il rischio — dice Eugenio Sidoli, presidente di Philip Morris Italia e coordinatore del Comitato investitori esteri di Confindustria — è che l’incertezza induca molti a rivedere i propri piani. Disinvestire dall’italia per uno straniero è molto più facile che per un’azienda italiana. Le imprese, tutte, devono essere competitive. E avere certezze nel tempo. Soprattutto confidare su collaboratori di qualità. La merce più rara in tutte le regioni sono le competenze di cui ha bisogno l’industria 4.0. i digital maker, profili che l’italia fatica a formare».
I nostri concorrenti sono molto attivi nel tentare di convincere le multinazionali presenti in Italia, e non solo, ad andarsene. Sarebbe il caso di non aiutarli, anche con dichiarazioni improvvisate e irresponsabili. Sono sempre più frequenti le delegazioni di Paesi e Regioni che offrono incentivi fiscali, e non, per attrarre investimenti. Tra i Paesi più attivi: Francia e Spagna. Molto più dell’est Europa. I vantaggi che sono difficilmente replicabili sono altri: i cluster di eccellenza, fatti di flessibilità intelligente, vivacità innovativa, cultura industriale sedimentata nel tempo. Questo spiega, per esempio, la crescita superiore alle più rosee previsioni, degli investimenti esteri diretti in Lombardia ed Emilia Romagna. «Bisogna promuovere meglio le filiere virtuose dei territori e ne abbiamo tante — aggiunge Sidoli — assicurare una migliore formazione tecnica alle richieste di industria 4.0, recuperare sul piano della digitalizzazione del Paese e affrontare i nodi della fiscalità». Ma l’attività più importante è oggi proteggere gli investimenti di chi ha creduto nel Paese, lavorare sulla retention, ovvero fidelizzazione, che può essere rafforzata con intese con le Regioni». Il Comitato investitori esteri di Confindustria ha avviato la sottoscrizione di protocolli con le Regioni per migliorare il presidio degli investimenti. Il primo firmato è con la Toscana. In preparazione: Emilia-romagna, Lazio e Campania. Puglia non pervenuta. I territori più industrializzati sanno che cosa vuole dire avere grandi imprese multinazionali. Sono attenti alla sostanza dei rapporti. Vogliono attrarre altri investitori. Sanno che così per i loro cittadini si aprono opportunità globali. Peccato che a livello nazionale la sensibilità sia minore. A volte persino assente. Gli investimenti esteri pesano in Italia il 21% del Pil contro il 46% della Spagna che, non a caso, cresce a un ritmo invidiabile.
Bisogna promuovere le filiere virtuose dei territori, assicurare una migliore formazione tecnica, recuperare sul piano della digitalizzazione, sciogliere i nodi della fiscalità