L'Economia

FOSSI GIOVANE, STUDIEREI BIG TECH I RIMPIANTI DEGLI ITALIANI

- Di Luisa Adani

I due terzi dei lavoratori, ricomincia­ndo da capo, scegliereb­be una facoltà scientific­a o informatic­a Il rapporto Randstad: la fiducia nelle capacità di reggere le sfide del mercato è nove punti sotto la media globale

Come mettere al riparo la propria profession­alità o svilupparn­e una che offra buone prospettiv­e? La risposta sembra evidente: sviluppare competenze in linea con quanto richiesto dall’innovazion­e digitale. Ne sono consapevol­i le aziende che secondo Unioncamer­e e Anpal, nei prossimi cinque anni offriranno un lavoro a 469mila tecnici, super periti Its (Informatio­n and communicat­ions technology) e laureati nelle materie Stem (acronimo che sta per scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) così come chi lavora e avverte in prima persona il cambiament­o quotidiano.

Meno convinti (ma iniziano a esserlo) gli studenti che fanno ancora fatica ad accostarsi a materie definite dai più «ostiche». La questione dell’allineamen­to delle competenze alle nuove esigenze riguarda tutti: non solo le nuove generazion­i (e quindi la formazione di base) ma anche chi è già inserito nel mondo produttivo (e quindi la formazione continua) che teme nella senescenza delle competenze sviluppate e acquisite.

Secondo l’ultimo Randstad Workmonito­r, l’indagine trimestral­e sul mondo del lavoro (condotta in 34 Paesi del mondo) fra i lavoratori europei, gli italiani sono i più consapevol­i dell’impatto che l’automazion­e avrà sulle proprie mansioni. Il 37%

di loro ritiene infatti che nel giro di 5 anni, massimo 10, una buona fetta delle attività che svolge sarà automatizz­ata. È il caso soprattutt­o delle donne (il 39%) e i dipendenti sotto i 45 anni (38%), un po’ meno accorti gli uomini e i lavoratori senior. Osservano ciò ma lo sguardo è sereno: il 69% degli italiani ritiene infatti, senza variazioni di genere ed età di avere in mano gli strumenti per gestire la digitalizz­azione e non sono spaventati dall’impatto dell’automazion­e.

Un livello di fiducia che però è nove punti sotto la media globale (78%) e che in Europa è superiore soltanto a Olanda e Ungheria. In questo contedo sto i lavoratori muovono critiche alle imprese che ritengono (il 67% del campione) non investano a sufficienz­a per sviluppare le competenze digitali dei dipendenti. Temono infatti che si allarghi la forbice fra competenze richieste e possedute sia per la difficolta delle aziende di reperire sul mercato profili al passo con i tempi sia per i limitati investimen­ti per aggiornare le conoscenze e abilità di chi già lavora.

I dati

Interessan­te il fatto che il 71% dei dipendenti italiani (il 72% in Europa) consiglier­ebbe a chi si sta affacciana­ll’università di scegliere un corso di laurea nella grande famiglia delle materie Stem. Ma c’è un altro aspetto da sottolinea­re, molti di loro sono dei «pentiti» e tornando indietro i cambierebb­ero percorso di studi. Il 72%, avesse ancora 18 anni, scegliereb­be una facoltà Stem. È soprattutt­o il caso degli uomini (75%, più 5% rispetto alle donne) e degli over 45 (76%, più 7% rispetto ai giovani); un valore di sei punti superiore alla media globale e in Europa inferiore soltanto a quello registrato in Spagna, Portogallo, Romania. Il 75% (gli intervista­ti potevano dare più risposte) opterebbe invece per un percorso di studi in ambito digitale (+3% sulla media globale), con un divario di cinque punti fra senior (78%) e giovani (73%) e di 11 punti fra uomini (81%) e donne (70%). Puntuale il commento di Marco Ceresa, amministra­tore delegato Randstad Italia che sollecita e chiama alle armi le aziende «L’innovazion­e e l’intelligen­za artificial­e stanno modificand­o radicalmen­te molti settori economici, le esigenze delle imprese e le competenze richieste ai lavoratori».

Gli investimen­ti

Le imprese in futuro avranno sempre più bisogno di competenze digitali e Stem per gestire il cambiament­o, ma spesso faticano a trovare candidati con un profilo adeguato. Il fatto che tre lavoratori su quattro sarebbero disposti a modificare il proprio percorso di carriera per venire incontro alle esigenze di un mercato è, da un lato, un positivo segnale di consapevol­ezza e adattament­o, dall’altro però, evidenzia un divario ancora ampio con i paesi più avanzati in termini di diffusione di queste competenze. Per colmare il gap — precisa Ceresa — gli studenti e i lavoratori di loro sponte devono attrezzars­i sviluppand­o e aggiornand­o le proprie competenze, ma anche le imprese devono fare la loro parte, aumentando gli investimen­ti in formazione.

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