UN RILANCIO STATICO LA CRESCITA È RIMANDATA
Con una strategia dinamica, la norma (molto interessante) che prevede incentivi fiscali a chi diventa più grande sarebbe stata allargata a tutto il sistema imprenditoriale. Ancora una volta si è evitata la proposta del salto di qualità
Di questi tempi è un mestiere ingrato quello del presidente del Consiglio. Per un verso, una emergenza sanitaria senza precedenti. Per altro verso, una profondissima crisi economica a soli dieci anni di distanza da una crisi finanziaria globale da cui il paese ancora non si era del tutto ripreso. Il tutto con una maggioranza che non è un esempio di armonia e senza la forza di una vera investitura popolare. É comprensibile quindi che, in questo contesto, la principale attività del presidente del Consiglio, più che una attività di guida ed indirizzo, sia un‘attività di assemblaggio delle istanze provenienti dalle diverse componenti del governo, della maggioranza e dell’amministrazione. Di questa difficoltà il decreto Rilancio è una plastica espressione.
Lo schema
Non ci si riferisce tanto alla difficile e laboriosa gestazione, quanto a contenuti e coerenza. La sequenza di capitoli richiama la struttura dei vecchi Documenti di programmazione economica e finanziaria: una sommatoria di «occorre» e di «è necessario» destinati a rimanere tali. La differenza è che gli «occorre» sono diventati provvedimenti normativi e le «necessità» si sono trasformate in indicazioni di spesa.
E se nelle precedenti leggi di bilancio i vincoli europei rappresentavano uno scudo dietro al quale il presidente del Consiglio e il ministro dell’economia potevano nascondersi per contenere l’assalto alla diligenza, mancando lo scudo diventa difficile respingere anche le richieste più incongrue (come il rinnovo del parco mezzi di trasporto del Comune di Taranto, articolo 209-novies) e diventa inevitabile confondere il rilancio dell’economia con il rilancio dell’impiego pubblico nella scuola (articolo 221-bis) e nell’università (articolo 229-bis) o con il ricorso da parte dell’amministrazione ad esperti e consulenti (articolo 48) e limitare le semplificazioni burocratiche alle sole procedure di assunzione nella Pa (articoli 237 e seguenti). Su tutto si staglia la sensazione di una malinconica assenza di strategia (a parte il progressivo ampliamento della sfera di influenza dell’operatore pubblico).
Un buon esempio è dato da ciò che si è ritenuto di fare sul versante delle imprese. Queste vengono suddivise in tre comparti. Le imprese micro con fatturato inferiore ai 5 milioni: ad esse — oltre alla possibilità per il momento solo teorica di tornare a indebitarsi — viene offerta solo assistenza. Sotto forma di contributi a fondo perduto, di rinvii di obblighi fiscali (se non di cancellazione tout court, come nel caso di una Irap che peraltro mancherà se manca il fatturato), di sussidi in conto affitti o in conto energia. Seguono poi le imprese di medie dimensioni con fatturati fra i 5-10 e i 50 milioni: per loro lo strumento principe che viene individuato è la partecipazione diretta (riscattabile) dell’operatore pubblico nel capitale attraverso un Fondo dedicato gestito da Invitalia nonché una incentivazione fiscale alla patrimonializzazione. Infine, le imprese maggiori con fatturato superiore ai 50 milioni: per esse è previsto l’intervento diretto della Cdp nel capitale. Colpisce, di questa sequenza, la natura statica. L’idea è che il 90% circa della struttura produttiva debba superare la nottata e poi tornare a essere
ciò che è sempre stata: sottodimensionata, sottocapitalizzata, relativamente poco innovativa, incapace di fare il salto di qualità che i differenziali di produttività rispetto ai competitor imporrebbero.
I dubbi
Per il restante 10% il futuro è altrettanto incerto: quali condizionalità (per usare un vocabolo mutuato dal Mes) saranno legate alla presenza pubblica nel capitale? Quali vincoli per l’operatività di quelle impresene deriveranno? Il testo del decreto rinvia ad un provvedimento per quanto riguarda le condizioni, i criteri e le modalità. Provvedimento che non potrà non ripercorrere le indicazioni puntuali presenti nel cosiddetto temporary framework comunitario. É troppo immaginare che il capitale pubblico possa essere richiesto ed accolto con entusiasmo tanto maggiore quanto maggiori saranno le difficoltà presenti ma anche prospettiche di alcune medie e grandi imprese? Che chi potrà non correrà il rischio di ritrovarsi con un socio potenzialmente scomodissimo e quindi finirà per rimanere così com’è? E che quindi, sotto questo aspetto, il decreto Rilancio potrà finire per trasformarsi in una modalità con cui alcuni riusciranno elegantemente a liberarsi di imprese in bilico (e non solo per via del Covid-19)?
Se avesse prevalso un’ottica dinamica, la norma interessante e potenzialmente molto rilevante contenuta nel decreto e relativa alla incentivazione della patrimonializzazione delle imprese sarebbe stata estesa all’intero universo delle imprese. Difficile pensare che così non sia stato per motivazioni legate all’eventuale perdita di gettito. Non sarebbero stati poi tanti i piccoli imprenditori disposti a rovesciare la regola tutta italiana dell’imprenditore ricco e dell’impresa povera. E ciò sarebbe stato ancor più vero se si fosse ristretto lo spazio per operazioni opportunistiche mutuando alcune delle indicazioni del citato temporary framework (e limitando, ad esempio, la distribuzione di dividendi per un periodo). Certo, rispetto alla partecipazione diretta nel capitale, l’incentivo fiscale alla patrimonializzazione sarebbe stato una liberazione di energie individuali e non invece il loro controllo e condizionamento. Non è di questo che avremmo bisogno?
Insomma, era questa una occasione insperata per dare una scossa all’intero sistema delle imprese, per consentire ad alcuni microimprenditori di provare a diventare piccoli e ad alcuni piccoli di provare a diventare meno piccoli. Si è preferito, invece, elargire un sostegno senza domandarsi cosa accadrà quando quel sostegno sarà esaurito. Peccato. Ha prevalso l’idea che l’italia non possa cambiare. Ma pensare che l’italia possa rilanciarsi senza cambiare è una falsa partenza. Difficile immaginare che la discussione parlamentare possa restituire un po’ di prospettiva all’intervento di politica economica disegnato dal decreto. Più facile pensare che al modico costo di tre mila euro di debito addizionale per nucleo familiare il paese abbia consentito a se stesso di galleggiare ancora per un po’ in acque che le istituzioni europee hanno contribuito a calmare. Ma la terra non si vede e le nuvole in lontananza promettono burrasca.