SPEA TENIAMOACCESE LEMACCHINE
L’azienda torinese fa impianti hi-tech per testare dai chip ai pacemaker. I clienti? Apple e Medtronic
In questi mesi di lockdown forzato i macchinari della Spea, gioielli hi-tech da Silicon Valley all’italiana, non si sono mai fermati. I 683 fra tecnici, progettisti, softwaristi e ingegneri dello stabilimento di Volpiano, cintura industriale di Torino, meno di venti minuti in automobile dalla Mole Antonelliana, armati di guanti, mascherine e tanta attenzione nel rispetto dei nuovi distanziamenti anti-covid, hanno infatti continuato a presentarsi al lavoro, ogni mattina.
«Semplicemente, non potevamo chiudere: abbiamo risposto con responsabilità a un dovere morale» riassume Luciano Bonaria, 72 anni (nella foto con il figlio Luciano, a sinistra, che ricopre la carica di amministratore delegato) fondatore e presidente dell’azienda. Dal 1976 la Spea inventa, progetta e produce macchinari automatici per il collaudo di dispositivi elettronici, dai wafer dei semiconduttori ai microchip, dai sensori alle schede elettroniche fino ai moduli di potenza. Niente settori Ateco «free-covid» o richieste di deroga alla Prefettura. Il fatto è che una bella fetta dei clienti dell’impresa appartiene al settore della salute, oggi in prima linea nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria. Ad esempio il colosso statunitense Medtronic, che fra le altre cose produce pacemaker e li manda proprio a Volpiano per essere testati prima di impiantarli. «Medtronic ci ha inviato una lettera indirizzata al governo italiano dicendo che senza il nostro aiuto la sicurezza dei loro prodotti non sarebbe stata più la stessa — dice Bonaria —. Capite bene che un pacemaker non può rompersi, o essere difettoso, una volta impiantato: ne va della vita delle persone. Così ci siamo detti: senza le nostre macchine molti pazienti correrebbero un grosso pericolo,
Il ceo Luciano Bonaria: «Collaudiamo i prodotti altrui, dai microchip ai sensori. Semplicemente, non potevamo chiudere»
dunque è nostro dovere prenderci il rischio di continuare a lavorare. L’hanno compreso tutti, qui. E finora, rispettando tutte le norme sanitarie, non abbiamo avuto alcun caso di contagio».
Controllata al 100% dalla finanziaria di famiglia Bonarfin (il figlio Lorenzo è l’amministratore delegato), la Spea dichiara 121 milioni di fatturato nel 2018, al 20% reinvestiti ogni anno in attività di ricerca e sviluppo; un margine operativo lordo del 29%; un incremento annuo dei ricavi nel 2012-2018 dell’11,3%; e nessun debito con le banche dal 1990. Vanta clienti del calibro di Apple e Bosch, tanto per fare due esempi. Ma è stato un percorso lungo, iniziato quando Bonaria era un giovane tecnico della Olivetti. «Nel 1968 — racconta l’imprenditore — mi ritrovai a progettare da zero la macchina che avrebbe dovuto collaudare le schede del primo personal computer della storia, la Perottina. Me la sono praticamente inventata questa macchina, e così mi sono appassionato». Da lì il salto in General Electric nel 1969, quando il colosso Usa acquisì la divisione elettronica dell’azienda di Ivrea. Poi, dal 1976, in proprio. «Sono un residuato bellico dell’industria 4.0 — scherza Bonaria — nel senso che sono cinquant’anni che lavoro con macchine connesse». Esperienza che, mixata con la competenza della cintura industriale torinese, ha permesso alla Spea di competere con i grandi gruppi dell’hi-tech mondiale.
«Oggi abbiamo due grossi concorrenti, uno negli Usa e l’altro in Giappone — dice Bonaria—. Sono dei giganti, ma la nostra qualità è superiore e i nostri clienti ci riconoscono la capacità di intercettare il minimo difetto, anche se latente o addirittura invisibile. Provateci voi».