L'Economia

ARRIVERANN­O 55 MILIARDI IL MODO MIGLIORE PER SPENDERLI SONO GLI INVESTIMEN­TI ( E CE NE SONO POCHI)

Solo alla sanità negli ultimi due mesi un budget che vale 4 anni Ma non serviranno senza programmi e innovazion­e. Anche sul territorio

- di Ferruccio de Bortoli, Carlo Cinelli, Daniele Manca, Fabio Pammolli Con articoli di Antonella Baccaro, Stefano Caselli e Nicola Rossi

Nel 2020 i costi della sanità crescerann­o di oltre 7 miliardi, nella cifra assunzioni e raddoppio dei posti in terapia intensiva: in due mesi il settore ha avuto stanziamen­ti pari a quelli di 4 anni Ma senza investimen­ti oculati e rafforzame­nto del ruolo e degli strumenti della medicina di base non saranno efficaci

Li abbiamo celebrati come eroi della battaglia, combattuta persino a mani nude, senza protezioni, contro il virus, perdendo spesso la vita. Con il Decreto Rilancio li avremmo dovuti premiare oltre che ringraziar­e. Medici, infermieri e personale sanitario non avranno il bonus promesso. Non lo avranno perché alcune Regioni avevano già provveduto o hanno in programma di farlo e per la difficoltà di stabilire esattament­e il perimetro dei beneficiar­i. Il Decreto legge più corposo (250 articoli) e più impegnativ­o sotto il profilo finanziari­o (55 miliardi di fabbisogno) che sia mai stato varato, non ha affrontato nemmeno lo spinoso tema della responsabi­lità civile penale degli operatori sanitari. Non è escluso che diversi profession­isti, gli «eroi» di questa emergenza, saranno chiamati, nei prossimi anni, a rendere conto del loro operato nella presumibil­e lunga scia giudiziari­a della pandemia. Una beffa dolorosa.

I numeri

Il decreto Rilancio ha comunque stanziato 3 miliardi e 250 milioni per la Sanità nel suo complesso, di cui un miliardo e 200 milioni per l’assunzione di nuovo personale. Non solo medici. Sono 9 mila e 600 gli infermieri che verranno contrattua­lizzati. Si investirà di più — come ha scritto Margherita de Bac sul Corriere — per rafforzare le Unità speciali di continuità assistenzi­ale (Usca). La cifra di un miliardo e 400 milioni verrà destinata per raddoppiar­e le postazioni di terapia intensiva oltre quota 11 mila. La dotazione italiana — come ha spiegato il ministro della Salute, Roberto Speranza — si collocherà così al di sopra della media dei Paesi Ocse. In sostanza,

nel 2020, la spesa sanitaria crescerà — se aggiungiam­o anche ciò che era stato previsto da provvedime­nti precedenti, in particolar­e il Cura Italia — di quasi 7 miliardi. «In due mesi il governo — commenta Domenico Mantoan, direttore generale della Sanità e del Sociale della Regione Veneto e presidente dell’aifa, l’agenzia del farmaco — ha dato all’intero settore una cifra pari a quella stanziata negli ultimi quattro anni. E la metà ce la ritroverem­o tutta come spesa corrente. Dunque, il Servizio sanitario nazionale impegnerà poco più di 120 miliardi l’anno. Se poi si dovesse accedere al prestito previsto dal Mes, ci troveremmo a gestire tra Stato e Regioni un capitale cospicuo, enorme. Con quale disegno? Quale l’impatto sul territorio? Quale la garanzia di efficienza nella spesa?».

La voce di Mantoan non è secondaria nel dibattito sull’emergenza Covid. La Regione Veneto ha dimostrato di aver contrastat­o meglio e per tempo, grazie alla sua medicina territoria­le e alla tempestivi­tà delle diagnosi, la diffusione del virus. Se c’è un modello che ha funzionato è quello veneto. Ma l’italia ha 21 sistemi regionali e provincial­i. A seconda della gravità della crisi, le risposte sono state diverse. Anche sotto il profilo dei modelli gestionali. In questi mesi di assoluta emergenza, la necessità di dotarsi di dispositiv­i di protezione individual­e, ventilator­i (15 mila euro di costo medio) e di allestire in fretta posti letto di terapia intensiva (130 mila euro l’uno) ha messo in secondo piano il tema dell’efficienza della spesa. Inevitabil­e. Ma è accaduto anche che siano state stipulate velocement­e convenzion­i con gli operatori privati forse non strettamen­te indispensa­bili. E così è avvenuto sul versante delle assunzioni anche in Regioni a basso contagio. Le maglie di bilancio si sono allargate ovunque. Del resto la legge 42 del 2009 quella sul federalism­o fiscale (da cui la vecchia polemica sul costo delle siringhe tra le varie Regioni) è rimasta di fatto lettera morta. E non possiamo dimenticar­ci che, negli ultimi anni, ben sette gestioni regionali della Sanità sono state commissari­ate o sottoposte a piani di rientro. Non erano gestioni impeccabil­i. Come sanno ormai anche i sassi (solo nel nostro Paese vi è stata una discussion­e così strumental­e e disinforma­ta) l’accesso al prestito del Meccanismo europeo di stabilità, a tassi vicini allo zero, avrebbe come condizione il suo impiego limitato alle spese sanitarie «dirette e indirette» legate al coronaviru­s e alla prevenzion­e in futuro delle epidemie. La decisione di ricorrere al prestito del Mes non è stata ancora presa ma è probabile che il governo sarà costretto a farlo.

Le strategie

E, dunque, come li spenderemm­o quei soldi? «La principale distinzion­e che si dovrebbe fare — è l’opinione di Francesco Longo del Cergas-bocconi — è quella fra spesa in conto capitale e e spesa corrente. Se si contrae un debito, come è il Mes, bisognereb­be privilegia­re gli investimen­ti. La spesa in conto capitale è pari a 60 euro per abitante contro i 1900 euro di quella corrente. La nostra dotazione tecnologic­a è obsoleta. È stata ammortizza­ta già al 90 per cento, vuol dire che ha quasi esaurito il suo ciclo vitale. Abbiamo troppe apparecchi­ature, spesso superate e usate poco. Ne dovremmo avere di meno, più moderne e usate di più. Gli ospedali piccoli sono in eccesso. Una buona parte delle strutture è in immobili vetusti. Un ospedale nuovo può arrivare a risparmiar­e fino al 15 per cento della spesa corrente». I nuovi investimen­ti dovrebbero essere concentrat­i soprattutt­o per rafforzare la rete dei medici di base.

«La decisione di riservare un miliardo e 500 milioni alla medicina territoria­le — spiega Vincenzo Atella, docente di Economia all’università di Roma Tor Vergata — va sicurament­e nella direzione giusta ma mi chiedo se ci sia un progetto coerente, di respiro nazionale, in grado di costruire in breve tempo un sistema di allerta della salute pubblica in Italia, con dati dei medici di base scambiati in tempo reale in cloud e in modo da avvertirci per tempo dell’insorgere di infezioni. Se ci fosse stato avremmo avuto sei o sette giorni di vantaggio nella lotta al coronaviru­s».

«I 46 mila medici di medicina generale —aggiunge Claudio Cricelli, presidente della società italiana di medicina generale — sono altrettant­e sentinelle sul territorio ma sono stati di fatto sempre estranei al Servizio sanitario nazionale. Non siamo una parte ben integrata. Si parla ancora oggi di ospedale e territorio come fossero due entità separate. Se si investisse, per esempio, sulle nostre apparecchi­ature, si tratterebb­e di una spesa, non di un investimen­to, a differenza di quello che avviene per una struttura ospedalier­a. Il nostro contratto di lavoro poi, da liberi profession­isti, è parasubord­inato». Il sistema di allerta attualment­e allo studio coinvolge 2500 medici di base che hanno in cura un campione omogeneo di circa 4 milioni di persone. «Se avessimo avuto in questa pandemia — conclude Cricelli — un sistema di segnalazio­ne attraverso la diagnostic­a precoce avremmo avuto meno ricoveri e casi gravi».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy