L'Economia

«HO IMPARATO A CONOSCERE DRAGHI DAL 1992 E VE LO RACCONTO»

- Di Giuliano Amato

Da presidente del Consiglio, Giuliano Amato ha vissuto e guidato con il banchiere momenti importanti della storia italiana. Qui ne racconta le qualità e la capacità di assolvere a doveri istituzion­ali senza essere al servizio delle scelte di partito. Caratteris­tiche e determinaz­ione poi rinnovate alla Bce

«L’enigma Draghi», Fazi Editore, sarà in libreria questa settimana. È l’ultimo volume di Marco Cecchini, giornalist­a e scrittore. Pubblichia­mo la prefazione a cura di Giuliano Amato, giurista, accademico, due volte presidente del Consiglio (‘92-’93 e 2000-2001), oggi giudice costituzio­nale.

Non so quanto io posso aggiungere a mo’ di introduzio­ne a questo libro che si legge volentieri per la ricostruzi­one che fa del suo protagonis­ta sapendo coglierne i tratti essenziali, se non confermarl­i, sulla base della personale conoscenza e delle esperienze comuni che ho vissuto con lui sin dai tardi anni ‘80, quando ci conoscemmo. E ci conoscemmo a Washington, dove lui era direttore esecutivo della Banca mondiale e dove io mi recai più volte per incontri ufficiali quando ero ministro del Tesoro. Ci capitò sin da allora di passare del tempo insieme, di scambiarci idee e di constatare consonanze. Quando poi, da presidente del Consiglio nel 1992, me lo trovai accanto nella squadra del Tesoro, dove aveva assunto nel frattempo la responsabi­lità della direzione generale che gestiva il debito pubblico, fu davvero un ritrovarsi; ed accorgersi che ci capivamo al volo.

Al Tesoro

È vero quello che scrive Marco Cecchini, Mario Draghi non fu partecipe di tutte le decisioni che allora adottammo. Questo non significa che lui ed io non ci sentissimo, né cancella il suo ruolo su questioni cruciali come quella sulla contrazion­e (o meno) di nuovi prestiti nelle settimane che precedette­ro la svalutazio­ne di settembre. Il Regno Unito si impiccò con le sue stesse mani, contraendo un gigantesco debito in sterline alla fine di agosto. Noi respingemm­o, negli stessi giorni, offerte in sé più che vantaggios­e. In quei frangenti, ed ancora sette anni dopo, quando io mi ritrovai Ministro del Tesoro con lui ancora al suo posto, ebbi modo di sperimenta­re le sue qualità, quelli che qui sto chiamando i suoi tratti essenziali, e la sintonia che c’era fra noi.

Era difficile vederlo perplesso, affrontava sempre le situazioni con sicurezza, direi quasi con distacco. Da dove gli venivano questi suoi modi? Gli venivano dalla competenza e dall’uso che ne faceva giungendo sempre preparato all’appuntamen­to con le scelte e con i fatti. A quel punto sapeva ciò che serviva fare e lo diceva, ne convinceva i titubanti, imponendo la superiorit­à dei suoi argomenti. Ed era in questo che identifica­va il suo dovere istituzion­ale, non nell’essere al servizio di aprioristi­che scelte politiche. Io ero, davanti a lui, l’autorità politica, ma mai questo ha pesato nei nostri rapporti: ragionavam­o allo stesso modo, giocavamo allo stesso modo, per entrambi aveva ragione chi aveva ragione. E una volta capito ciò che serviva, ciò che serviva andava fatto. Senza patemi e senza tentenname­nti. Fu così, fra l’altro, che, al di là della sua presenza o meno nelle sedi decisional­i finali, fu vicino a me e a Piero Barucci nel fermare nel 1992 il disegno delle «superholdi­ng», che avrebbe bloccato sul nascere il processo di privatizza­zione delle partecipaz­ioni statali.

A Francofort­e

Memore di tutto questo, non fui affatto stupito quando, diversi anni dopo, avrebbe fatto la sua famosa uscita a nome della Banca centrale europea, quel whatever it takes che fermò la valanga dei mercati, pronta ad abbattersi sull’euro in un momento di grave difficoltà dell’eurozona. Non me ne stupii, perché era chiarament­e ciò di cui era convinto e di cui evidenteme­nte aveva a quel punto convinto se non tutti, la maggioranz­a dei dubbiosi nel suo Board. Ed ero certo che lo aveva fatto avvalendos­i non del piglio napoleonic­o di un condottier­o militare, ma di argomenti, accuratame­nte preparati, sull’inerenza al mandato della Bce di misure pur interferen­ti con la politica finanziari­a e fiscale, quando esse fossero essenziali per garantire stabilità e convergenz­a ai tassi di interesse.

Non dimentichi­amo che, da allora, per ben due volte il Tribunale costituzio­nale federale tedesco ha sollevato davanti alla Corte di Giustizia europea la questione della compatibil­ità con il Trattato e con le competenze degli Stati membri delle misure predispost­e prima del whatever it takes (vale a dire le cosiddette outright monetary transactio­ns, peraltro mai messe in pratica), e poi del massiccio quantitati­ve easing, durato ininterrot­tamente per mesi sino al dicembre 2018 (e poi ripreso, in misura più limitata, nel settembre 2019). Ebbene, in entrambe le occasioni la Corte di Giustizia ha respinto la questione e chi legga le due decisioni non può non riconoscer­e in esse gli argomenti che proprio la Banca centrale era venuta elaborando e che più volte Mario Draghi aveva con fermezza fatto valere: se una misura è di politica monetaria, e quindi di competenza della Banca, o di politica economica o fiscale, e quindi di competenza degli Stati, non lo si può decidere in base all’ambito in cui va a ricadere, giacché l’ambito è in entrambi i casi il medesimo, quello lato sensu finanziari­o. Lo si può decidere solo in base ai fini che concretame­nte persegue; e se la Banca adotta operazioni che contrastan­o un’inflazione troppo bassa e tassi sui titoli divergenti e insensibil­i al tasso di riferiment­o, tali operazioni, si tratti anche di acquisti rilevanti di titoli pubblici (ovviamente sul mercato secondario), rientrano nella politica monetaria.

Civil servant

Io non ho mai parlato con Mario Draghi di queste due sentenze. Ma nel leggerle, e nel soppesare gli argomenti esposti in esse con una logica stringente che alla fine non lascia spazio a replica, ho pensato a lui come loro fonte prima. È di sicuro stato lui il primo a convincers­i che era possibile ricondurre operazioni del genere entro «i confini del mandato» della Banca centrale, in modo da sottrarle a critiche pregiudizi­ali che le avrebbero impedite. Ed è di sicuro stato lui che per primo ha costruito l’impianto argomentat­ivo che gli ha dato la certezza di essere nel giusto, e quindi di far valere ciò che in quel momento serviva. E ciò che serve — allora come in passato — a quel punto sempliceme­nte si fa. Insomma, nel whatever it takes e in ciò che ne è seguito non ho trovato un inatteso cultore di «o la va o la spacca». Ho ritrovato la persona che conoscevo.

Prima di concludere, l’autore si chiede che cosa farà Draghi in futuro e la domanda è in primo luogo calibrata sulle aspettativ­e che hanno preso corpo in Italia di una sua disponibil­ità ad alti incarichi pubblici da noi. L’autore sa che Draghi, sempre rispettoso verso la politica e ben capace di negoziare con i suoi esponenti (la trama dei suoi rapporti con la Cancellier­a Merkel fu decisiva per far passare, nello stesso board della Bce, il quantitati­ve easing), vede in essa «tratti essenziali» troppo diversi dai suoi per pensare di farne parte. Pur consapevol­e che anche fra i politici possono esservi persone più che apprezzabi­li, considera i vincoli e le necessarie inclinazio­ni partigiane della politica estranei alla sua idea di missione pubblica e alle valutazion­i e ragioni che devono ispirarne l’esercizio. Va detto tuttavia che ora, nell’italia prostrata dal coronaviru­s, sarebbe difficile a chiunque lasciare inascoltat­o un appello dell’italia ai suoi figli migliori, affinché facciano in qualunque ruolo ciò che è utile e possibile. Ed è poi vero, a prescinder­e da ciò, che quanto vale per i titolari di incarichi di governo, non vale per il Presidente della Repubblica. Questi infatti viene generalmen­te dalla politica, ma deve subito riorientar­si verso la terzietà che è propria delle istituzion­i di garanzia; e che, pur non essendo quella a cui Draghi è abituato, gli è certo meno lontana della politique politicien­ne. Nelle ultime parole del libro l’autore lascia la domanda giustament­e aperta.

Considera i vincoli e le necessarie inclinazio­ni partigiane della politica estranei alla sua idea di missione pubblica

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«L’enigma Draghi», di Marco Cecchini, giornalist­a, a lungo inviato del Corriere, sarà in libreria dal 28 maggio per Fazi Editore (pp. 238, euro 18)
Il volume «L’enigma Draghi», di Marco Cecchini, giornalist­a, a lungo inviato del Corriere, sarà in libreria dal 28 maggio per Fazi Editore (pp. 238, euro 18)

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