CAPITALE UMANO VINCERÀ CHI LO COLTIVA
L’emergenza rischia di svuotare gli atenei internazionali, ma la corsa per attrarre i giovani non si ferma
L’Australia non intende perdere il suo primato nella battaglia contro la pandemia: poco più di 100 decessi per Covid-19, in un Paese di 25 milioni di abitanti fortemente legato alla Cina, è un record positivo di cui andare fieri. La chiusura tempestiva delle frontiere ha contribuito a raggiungere questo risultato, così il governo ha fatto sapere che i confini potrebbero non riaprire prima di metà settembre. Con una sola significativa eccezione. A inizio luglio, a Canberra, arriveranno con un volo charter 350 studenti internazionali iscritti alle università della capitale. Si tratta del progetto-pilota per costruire un «corridoio sicuro» dedicato a quei giovani di tutto il mondo che hanno scelto l’australia per la loro formazione universitaria. Parliamo di quasi 450.000 persone (il 37% con passaporto cinese), uno studente universitario su cinque nel Paese, una percentuale record nell’area Ocse.
Grazie a loro, la formazione terziaria è diventata la voce più importante dell’export di servizi, fonte di valuta estera per 26 miliardi di dollari l’anno. Un settore strategico, insomma, messo in grave difficoltà dalla diffusione del virus. Molti giovani infatti sono bloccati nei Paesi d’origine per il lockdown o lo stop ai voli, altri temono nuove ondate di contagio e preferiscono atenei più vicini a casa.
Il caso australiano dimostra che la pandemia non ha intaccato soltanto le classiche catene globali del valore. Il contagio ha scosso con violenza pure quelle che potremmo definire «catene globali del valore intellettuale», cioè una fitta rete di istituzioni, servizi e reti costruiti attorno a una delle risorse più importanti del pianeta: il capitale umano. Nel mondo sono oltre 5,3 milioni gli studenti internazionali, giovani che lasciano il proprio Paese per studiare in un’università straniera, 3,7 milioni dei quali si trovano nei Paesi dell’ocse. Quando il flusso di questi studenti si interrompe, e con loro si blocca il versamento delle rette universitarie, l’industria della formazione entra in sofferenza.
Competizione
Ma le potenze mondiali partecipano alla corsa internazionale ai «giacimenti» di capitale umano anche per altri motivi: nell’immediato, per nutrire le attività di studio e di ricerca degli atenei nazionali; nel medio termine, per alimentare l’innovazione e sostenere l’economia interna; nel lungo periodo, per creare legami culturali e diplomatici, e per mitigare, con forza lavoro giovane e qualificata, l’ invecchiamento delle popolazioni locali. Alla testa di questa competizione per il capitale umano del pianeta, per ragioni storiche e linguistiche, sono da tempo i Paesi anglosassoni. Stati Uniti, Regno Unito, Australia e Canada, da soli, accolgono il 40% degli studenti internazionali dell’area Ocse.
Gli effetti della pandemia, però, non risparmiano nemmeno i primi della classe, cioè gli Stati Uniti, che ospitano ben oltre un milione di studenti inperò ternazionali (i più numerosi sono i Cinesi, circa 350.000), poco meno del 6% di tutti gli studenti del Paese e il 25% tra i dottorandi. Nel prossimo autunno, a causa del Covid-19, gli atenei a stelle e strisce temono un calo del 25% delle immatricolazioni dall’estero. Una parte dei 455.000 posti di lavoro generati da questi giovani è a rischio. Così le università americane stanno rafforzando il reclutamento in aree più periferiche e disagiate del Paese, e allo stesso tempo reinventano la loro presenza in Asia, tra roadshow telematici, corsi online, sostegno economico straordinario ad alcuni liceali meritevoli, ecc. Di certo non aiutano la crisi economica e le tensioni geopolitiche con la Cina.
Nei prossimi anni, comunque, la domanda globale di formazione universitaria continuerà a provenire soprattutto dall’asia, con un crescente protagonismo dei giovani Indiani. Se ne è accorto il Giappone che da tempo, per volontà del premier Shinzo Abe, spinge sull’acceleratore dell’internazionalizzazione accademica. Risultato: nel 2011 gli studenti internazionali erano 164.000, oggi sono 310.000, perlopiù Cinesi e Vietnamiti. Se Washington tergiversasse nella corsa per accogliere le menti più brillanti del pianeta, dunque, non mancherebbero i contendenti anche tra i suoi alleati. Nell’europa continentale i Paesi più attivi sono Francia e Germania. Mentre la nostra università, coi suoi 83.925 studenti stranieri iscritti nel 2017/18, a settembre — prevede la Svimez — farà già fatica a non perdere matricole tra i cittadini italiani. La crisi economica infatti sta bussando di nuovo alla porta, in tandem con il declino demografico. Un piano di reclutamento straordinario di giovani universitari, all’interno dei nostri confini così come tra i giacimenti globali di capitale umano, sarebbe a maggior ragione una scelta lungimirante.