MASCHERINE GRATIS? COSA PUÒ FARE IL CEO
Regole e soprattutto eccezioni ai doveri degli amministratori applicate con la pandemia aprono questioni che vanno al di là dell’emergenza. Ecco i margini di tolleranza per i capitani di navi nella burrasca
In tutti gli ordinamenti moderni la responsabilità civilistica degli amministratori deve mediare opposte esigenze: da un lato, rappresentare un efficace deterrente a condotte dannose per i soci, la società e i creditori, prevedendo adeguati ristori a ingiusti pregiudizi; dall’altro, non paralizzare l’attività aziendale, intrinsecamente rischiosa e svolta in assenza di completa informazione. Il punto di equilibrio si trova con un’articolazione dei doveri degli amministratori e, in particolare, distinguendo specifici e ben individuati doveri, come ad esempio l’obbligo di attivarsi a fronte di perdite del capitale, che se violati possono fondare un risarcimento; e un più flessibile standard di diligenza, applicabile alla generalità delle scelte di gestione. Quest’ultimo standard sfugge a puntuali definizioni ma si sostanzia non nel giudicare i risultati del business, bensì — almeno in assenza di conflitti d’interesse — come le decisioni sono state assunte (se in modo informato, calibrando ragionevolmente approfondimento e rapidità d’azione, ecc.).
Questioni di metodo
Proviamo a chiarire meglio. Sebbene diversi ordinamenti utilizzino tecniche normative e giurisprudenziali diverse per disciplinare la materia, il punto sostanziale resta simile: il giudice, che non è un esperto di management, non sostituisce la propria valutazione, che potrebbe essere facilitata dal «senno di poi», a quella degli amministratori. Salvo casi estremi di scelte totalmente illogiche, non si mette cioè in discussione il merito delle decisioni, bensì il metodo con cui sono state (allora) assunte. Nei paesi di tradizione continentale il concetto si esprime tecnicamente dicendo che l’obbligazione è di mezzi, non di risultato (come quella dei medici); mentre negli ordinamenti anglosassoni si impiega il concetto di doveri fiduciari e la cosiddetta business judgment rule, una sorta di presunzione di correttezza dell’operato degli amministratori. Ma il risultato pratico non cambia e implica una certa «deferenza» verso le decisioni manageriali, sempre escludendo ipotesi in cui i consiglieri perseguono interessi propri. Naturalmente, gli approcci delle diverse corti variano nel “grado” di deferenza: ad esempio nel Delaware, lo Stato americano scelto dalla maggior parte delle quotate, i giudici sono piuttosto restii a condannare gli amministratori. Ma lo schema concettuale impiegato è simile.
Cambia qualcosa con il Covid-19? È necessario distinguere modifiche introdotte espressamente dai legislatori, come misure eccezionali e temporanee, da considerazioni su come si debba declinare lo standard di diligenza nel quadro fattuale e normativo della pandemia, anche con riguardo agli interessi dei diversi stakeholders tra i quali il consiglio deve mediare.
L’emergenza
Sotto il primo profilo, numerosi provvedimenti hanno sospeso o sfumato alcuni dei doveri specifici degli amministratori ai quali si faceva cenno, per evitare che la crisi e le incertezze che essa ha generato inducano eccessiva avversione al rischio. Sono esempi di questo approccio la sospensione almeno parziale, in Italia e Spagna, di obblighi di gestione conservativa e scioglimento della società in caso di perdite sul capitale; la limitazione di azioni contro gli amministratori di società rivelatasi insolvente (wrongful trading rules) nel Regno Unito; e, in certa misura, la sospensione del dovere del debitore di chiedere il proprio fallimento in Germania e in altri Paesi. Tutte misure adottate negli ultimi mesi e legate alla pandemia.
Ci si deve chiedere se e come adattare lo standard della diligenza a un periodo così incerto
Etica e buon senso
D’altro lato, ci si deve chiedere se e come adattare lo standard della diligenza a un periodo tanto difficile e incerto. Non serve un diverso apparato concettuale o normativo, essendo sufficiente calare i princìpi nella particolare realtà operativa che se, da un lato, impone maggiore prudenza, dall’altro richiede un margine di tolleranza per il capitano di una nave che attraversa un inatteso fortunale. Non vogliamo banalizzare, ma è soprattutto un problema di fatto e di buon senso.
Più interessante è se e fino a che punto è lecito o doveroso per gli amministratori adottare particolari cautele, non imposte dalla legge, anche se esse possono ridurre gli utili nel breve periodo, tenendo conto non solo degli interessi dei soci ma anche di quelli di lavoratori, clienti, fornitori e della comunità; ed impegnarsi in attività altruistiche come produzione di mascherine da distribuire gratuitamente o donazioni importanti. Può sembrare una domanda cinica, ma soci o creditori potrebbero non essere felici di vedere ridotti i propri guadagni pur a fronte di azioni commendevoli sul piano etico.
Il tema si intreccia a quello, complicato e di attualità, sul fine della società. In sintesi, possiamo dire che almeno escludendo scelte palesemente irragionevoli, queste condotte sono lecite. Sempre più gli ordinamenti prevedono espressamente, tra i doveri dei gestori, anche quelli di tener conto di stakeholder esterni bilanciandone gli interessi con quelli dei soci (così è in Inghilterra, in Canada, in almeno 30 Stati Usa, ecc.), come ora previsto anche dall’obiettivo della «sostenibilità» nel Codice di corporate governance delle società quotate italiane, senza contare le richieste degli investitori istituzionali. In tempi tanto tragici, ciò è certamente consentito, se non imposto, indipendentemente da esplicite previsioni di legge. Anche perché — sempre senza voler apparire cinici — mostrarsi attenti e generosi può anche essere good business per le ricadute di immagine.
Etica, buon senso e doveri fiduciari possono insomma, nello scenario attuale e come in genere dovrebbero, convergere.
È frequente prevedere tra i doveri dei gestori anche quelli di tener conto degli stakeholder